Questioni di punto di vista (08/2011)

L’avranno vista tutti, quest’immagine, ma mi pare valga la pena di affrontarla un attimo in più. Il cosiddetto “Riot Kiss” (bacio tra gli scontri) opera di Richard Lam, è stato pubblicato il 16 giugno del 2011 sul Vancouver Sun a testimonianza di quanto accaduto nella città canadese messa a ferro e fuoco dai tifosi locali dopo aver perso la finale della Stanley Cup di hockey su ghiaccio contro la squadra di Boston.

Di qui a 100 anni questa foto potrebbe ancora reggere al peso degli anni mostrandoci intatto il momento in cui un ragazzo e una ragazza imprevedibilmente si distendono e si baciano, mentre tutt’attorno a loro impazzano la follia, la violenza, le fiamme. Non è il migliore spot possibile per la forza dell’ammore? Non è l’emblema stesso della fotografia che vale più di mille parole? Non è lo stesso del marinaio che bacia l’infermiera di Alfred Eisenstaedt nel giorno in cui termina la 2° Guerra Mondiale? Non è così? No, non lo è: ma lo diventa. O lo diventerebbe, se lasciassimo la foto tranquilla, da sola; se non la ricoprissimo di indiscrezioni, intrufolandoci sempre e per forza dietro le quinte, quando non sempre quel guardare-oltre ci porta davvero al di là dell’immagine.

Innanzitutto: della stessa foto si può dare una lettura documentaria e una lettura emblematica. Se si dispone di informazioni collaterali, sia di tipo iconico sia di altra natura (immagini o, invece, resoconti, interviste, filmati etc.) si può tentare di piazzare quest’immagine all’interno di una catena di eventi, di cause e concause – fotografiche, oltre che fattuali – riducendo il numero di illazioni necessarie a spiegare a cosa essa si riferisca. Se invece non si dispone di informazioni (come avviene il più delle volte) la foto continua a comunicare, ma a un livello emblematico: dove ogni singolo elemento diviene categoria generale e astratta. Mi spiego: per una lettura documentaria i due sono: “Scott Johns e Alex Thomas”; per una emblematica sono: un uomo e una donna. Capito?
Proseguo: il contesto passa dall’effettivo: “la strada di Vancouver in preda agli scontri dove – travolti da tifosi e poliziotti – i due cadono a terra”, a un emblematico: questo mondo impazzito e selvaggio. L’azione, letta risalendo i fatti, corrisponde a: “Scott, caduto subito dopo Alex, tenta di ridare coraggio alla fidanzata, in lacrime per il panico e per l’urto con la folla”; quando, letta in senso emblematico, suona: i due si abbandonano al sentimento qualunque cosa avvenga attorno a loro, o – come ha (incredibilmente) commentato il padre di Scott su Facebook: questo vuol dire fare l’amore non la guerra!…

Il motivo che mi spinge a credere che questa foto non conserverà il suo valore emblematico è l’accanimento mediatico, o meglio: l’assortimento mediatico e l’accesso alle sue fonti. Bastava pagare ed ecco spuntare il girato di varie telecamere di sicurezza ad offrirci l’evento immortalato da Richard Lam per Getty Images, visto da altri punti di vista sia spaziali che temporali. Ora sappiamo che un fiume di gente ha travolto i due, che la polizia ha tentato di rialzarli, che lei era sotto shock, che lui ha provato a rincuorarla, che gli si sono avvicinate varie persone. Ma sappiamo anche che Lam ha scattato varie immagini e che solo su una di queste si può vedere il poliziotto, emblema degli scontri, mentre impalla, copre e rimuove dalla memoria collettiva la figura di una donna che nel frattempo si avvicinava per porgere aiuto. Non si può preferire a priori il documento rispetto all’emblema, o viceversa: occorre scegliere in base all’uso.

La forza di certe immagini come quella di Eisenstaedt è che – tolta una manciata di negativi alternativi – non si è saputo granché su chi fossero quel marinaio e quell’infermiera (morta di recente) e il perché o il percome i due si fossero trovati a baciarsi. Scott e Alex, invece, praticamente il giorno dopo erano ospiti dell’emittente canadese CBC riraccontando la loro vicenda nei minimi, pettegoli, costosi, inutili particolari; e affogando, così, nel chiacchiericcio la bella fotografia di Lam. Alla prossima.

© Augusto Pieroni (da FotoCult #79, Agosto 2011)


Richard Lam, Riot Kiss, 2011
Controcampo (da videoripresa)
Alfred Eisenstaedt, V-J Day in Times Square, 1945

La tenacia della memoria (09/2011)

Gli eventi vissuti “in diretta” – dal vivo o in tv, su un computer o altri media – restano scolpiti nella mente con una vividezza maggiore di quelli cui abbiamo assistito a distanza di tempo dal loro effettivo accadere. Ce lo confermano gli studiosi del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Winnipeg (Canada) in un articolo pubblicato sulla rivista Memory e riportato dal Corriere della Sera.it dei primi di Luglio. Sono le cosiddette “memorie flash” quelle che si imprimono in modo duraturo nel nostro repertorio mnemonico. Uno si chiederà: ma che differenza c’è tra l’aver visto un evento in diretta o in differita (consapevolmente)? E la risposta è: nei due casi cambia drasticamente il numero e la variabilità dei particolari che la nostra mente immagazzina; l’immagine in diretta resta iperdefinita e stabile; l’altra cambia faccia più facilmente – diciamo così – e non è altrettanto stabile.

Ora basta coi canadesi, e pensiamo a noi: un evento che viviamo in diretta ci “impressiona” maggiormente (la parola stessa porta verso temi fotografici) probabilmente perché sentiamo, in qualche modo, di farne parte. Ci riguarda (per dirla con Barthes), ci siamo dentro; una sua immagine è un frammento della nostra stessa esistenza. Entrare in contatto coi “fatti” di rimbalzo – diciamo – ci rende, invece, più estranei ad essi, meno attenti. Quando i fatti entrano a far parte della nostra esistenza sotto forma di notizia o di informazione perdono, insomma, la loro urgenza, la loro imprevedibilità ed esplosività per acquistare invece una spettacolarità che li rende innocui. Diventano oggetti di attenzione, non cause di attenzione.

Oltre ad aver già parlato [n° 57, settembre 2009] delle “sensazioni apicali” e della capacità che ognuno ha di trasformarsi in macchina fotografica in grado di scattare delle foto incancellabili, nonché del tema della fotografia “in diretta” o “in differita” [n° 53, aprile 2009], per non ripetermi – o forse per fare una sorta di “bretella” con gli altri due lontani articoli – mi chiedo adesso: l’esperienza fotografica del Reale (ad esempio l’esperienza di un fotoreporter) si fissa sotto forma di “memoria flash” o di “fotografia”? Insomma l’evento impressionante impressiona l’uomo con la macchina in mano, o la macchina in mano all’uomo? Ovviamente, e forse, entrambi, ma in che modo l’uno e in che modo l’altra? Siamo d’accordo che le due cose non sono la stessa? Certo, si dirà.

Parto dunque da questo tema per osservare quanto spesso accada invece che una foto, da noi realizzata, ci piaccia e che noi si continui a proporla, senza essere in grado di toglierla dalla nostra selezione finale, solo perché è l’immagine più adeguata che abbiamo della nostra personale e incomunicabile “memoria flash”. Mi spiego: la foto è un modo di dare a vedere, di visualizzare ciò cui stiamo – innegabilmente – assistendo in diretta, benché nascosti dal fragile diaframma della fotocamera. Ma ciò che portiamo via dentro di noi e ciò che portiamo via dentro la macchina, anche se fanno entrambi riferimento alla stessa Realtà di partenza, ne sono due memorizzazioni totalmente differenti; per noi – ma solo per noi che eravamo lì – entrambe hanno la qualità di “memorie flash”. Per chiunque altro (tranne chi era eventualmente al nostro fianco durante gli eventi), invece, la nostra personale “memoria flash” è completamente inafferrabile e illeggibile, mentre la nostra foto sarà forse oggetto di attenzione, probabilmente di interesse, più raramente di ossessione. Ma resterà per sempre una memoria “batch” cioè in differita. Pensiamoci quando stiamo di fronte ai nostri provini: non c’è modo di trasferire ad altri il senso e il sentimento del nostro vissuto, possiamo solo darne segno. Se la foto per noi è la prova dell’evento, per quasi tutti gli altri è l’evento! Alla prossima!

© Augusto Pieroni (da FotoCult #80, Settembre 2011)


 

Il crollo delle Twin Towers, l’11 Settembre 2001
Il crollo delle Twin Towers, l’11 Settembre 2001
L’esplosione del dirigibile Hindenburg, 1937
L’esplosione del dirigibile Hindenburg, 1937

Saluti dall’11 Settembre (10/2011)

Come ogni 11 settembre ripenso all’attentato alle torri gemelle (che vidi in diretta tv). Lo faccio rimaneggiando riflessioni che pubblicai qualche anno fa a commento di un paio di cartoline regalatemi da una mia cara amica newyorkese molto amante dei souvenir strani e grotteschi. Due cartoline acquistate poco dopo il 9/11 in un souvenir shop a New York come fossero tramonti o panorami della Grande Mela. Una è la tradizionale ripresa satellitare della City di Lower Manhattan, scattata il 10 settembre; l’altra è praticamente la stessa immagine, ma scattata il giorno successivo, dopo l’attentato. O questo è quanto riportano le vistose didascalie. Sul retro, piccole immagini del tipico skyline del World Trade Center; particolari delle torri colpite, fumanti e al momento del primo crollo; e infine due immagini di pompieri perché – va detto – i proventi della vendita delle cartoline venivano devoluti ai soccorritori sopravvissuti.

Le due cartoline rispettano lo schema “prima/dopo” noto fin dalle pubblicità dell’800. Come spesso accade, la visione del dopo è solo vagamente simile al prima. L’angolo di ripresa del 10 settembre è angolato da sud e permette di vedere l’alzato dei palazzi, la ripresa dell’11 invece è praticamente ortogonale e le architetture non sono leggibili. Le ombre del 10 sono corte e ben contrastate, l’11 sono lunghe e coprenti. I colori del 10 sono freddi, l’11 terrei e rossicci. La riquadratura del campo visivo è più stretta l’11 settembre, mentre l’angolatura del territorio è deflessa verso est rispetto al riquadro.

Un discorso a parte meritano le didascalie. Che la prima sia del 10 settembre possiamo anche dubitarne senza danno, perché il prima può ben essere un prima qualunque. Ma ildopo è inquietante. La cartolina dice “September 11, 2001”, ma il testo qui ha un ruolo emblematico anziché descrittivo. Le ombre mostrano un sole di sud-est, il che fa escludere si tratti di una foto pomeridiana. Ma l’ultimo palazzo a crollare – il cosiddetto 7 WTC – cede alle 17:20 in un’area già coperta dall’intensissimo fumo bianco derivante dal crollo di WTC 1 e 2 e destinato a permanere per giorni (come si vede dall’aerofotografia della NASA del 12 settembre). Insomma: la cartolina dell’11 settembre non è una foto di quel giorno. Lo rappresenta, però; al meglio, diremmo: mostrandoci la zona come una ferita aperta, ma sanificata, del tutto priva di ceneri e detriti, ma ancora fumante.

Constato: queste cartoline sono tratte da aerofotografie; l’obiettivo di un satellite governativo registra quel che vede nel proprio campo visivo; una cartolina idealizza le memorie; la didascalia di una cartolina è il puntello necessario di queste memorie; l’unione di queste due cartoline diviene una micro-sequenza, un potente dispositivo narrativo. Non so altro, ma capisco che qui la foto è “cosa prima”, e non è immagine fedele di una cosa reale. Cosa “sia stato” ciò che ha prodotto l’immagine, non lo devo stabilire a priori dalla sua descrizione (che non ha valore d’indizio), né dal suo riconoscimento grosso modo. Non si parla di megapixel contro ISO, è cosa segnica e narratologica. Le due cartoline di Ground Zero non provano ipotesi macchinose; non nascono da tecno-smanettamenti; non nascondono losche manovre nei retroscena del potere o della comunicazione, ma evidenziano solo piccole e meschine strategie umane. Più che a souvenir dell’orrore – inspiegabile e ingiustificabile – siamo di fronte a una mercificazione a fin di bene. Un grottesco impulso a fissare gli highlights del mondo, intravedendo nell’effimera pagina di cronaca la durata della pagina di storia ed elevando la spettacolarizzazione del lutto all’altezza di un monumento nazional-popolare alla memoria. Una memoria che ancora celebriamo con devozione. Alla prossima.

© Augusto Pieroni (da FotoCult #81, Ottobre 2011)


 

 

 

Esibire o condividere? (07/2011)

Nel 1974 Franco Ferrarotti – decano della sociologia italiana – pubblicava “Dal documento alla testimonianza. La fotografia nelle scienze sociali”. Tre quarti del testo sono presi da un centinaio di foto in b/n, mentre la scrittura assertiva e stimolante di Ferrarotti spinge il lettore ad un uso diverso della fotografia rispetto a quelli vuotamente estetizzanti o illusoriamente documentari. Libro raro, c’è scritto dentro, ma certe parole dovrebbe poterle leggere chiunque. L’autore sostiene argomenti che ancor oggi facciamo una gran fatica a difendere, accerchiati da eserciti di appassionati smanettoni, di documentaristi sensazionalisti, e di collezionisti di vedute fotogeniche.

Il libro ricorda brevemente i caposaldi della fotografia a taglio sociologico: dai poveri ritratti nell’Inghilterra di metà ‘800 da Beard, Thompson o Smith, a Jacob Riis; dai documentari di Levitskij e Kusnezov nella Russia del 1917, agli Stati Uniti della F.S.A. e di LIFE. L’epoca d’oro della fede nella purezza astorica del documento fotografico si esaurisce nel dopoguerra, con l’emergere della cronaca televisiva. La fotografia antropologica già a suo tempo aveva trovato fotogenico il selvaggio e l’altro, soggetti della colonializzazione, e li aveva studiati con distacco e ammirazione come specie da possedere e collezionare. Spiega invece Ferrarotti che convivere e fraternizzare con le persone di cui si vogliono capire le condizioni di vita – ed eventualmente testimoniarle – non è un optional. Quando si entra nell’intimità, nel privato, della gente per esporne le debolezze, le nudità (“parading the nakedness” diceva James Agee) si deve usare umanità e senso di responsabilità. La quotidianità è sfuggente e tutt’altro che facile da analizzare, rimarca l’autore. Il freddo realismo dell’obiettivo – insensibile ai particolari spiacevoli – la sua impassibile e onnivora cattura del reale, torna di grande aiuto per recuperare il valore del documento, la sua importanza come testimonianza.

Lascio la parola a Ferrarotti: «Si spendono miliardi per esplorare lo spazio, ma perdiamo intanto appuntamenti importanti, decisivi con la condizione umana […] La fotografia solleva il problema dell’autenticità, del reale, e dei surrogati del reale, dell’autentico come non doppiabile, non riducibile, non meccanicamente riproducibile […] La realtà umana è significato – concrezione, costruzione di significati rappresi – essa non può trovarsi nella fotografia, ma nell’intenzione del fotografo […] Se non c’è l’intenzione cade anche il significato, cioè il criterio selettivo, il dato emergente, la variabile decisiva […] Fotografare per fotografare non significa nulla; isolato dal contesto e non riscattato dall’intenzione, il documento fotografico si riduce al gesto consumistico […] Il fotografo non necessitato, il fotografo turistico è come un cacciatore privo di fucile, di occhi, di mira, di nervi e di scatto.»

«Gli insegnamenti della fotografia si sono sempre preoccupati di dirci come fotografare. Ma, quando il come diviene più importante del perché, la perfezione – scriveva Ferrarotti – resta priva di scopo […] La commozione, insieme con la bellezza, è una cattiva consigliera […] I bambini vanno fotografati solo se funzionano come […] simboli abbreviati di una situazione globale […] La povertà è noiosa, si ripete. Fotografarla è difficile perché è difficile fotografare la mancanza di oggetti, il vuoto, la penuria. Bisogna fotografare la povertà con pazienza e devozione […] C’è un atto d’amore in ogni fotografia, [un bisogno] di significare al di là del puro documento.»

«Io – dice ancora Ferrarotti – fotografo ripetendomi a mezza voce le ragioni del mio fotografare […] Fotografare vuol dire saper aspettare, circuire, avvitarsi sull’oggetto a ghermirlo repentinamente, ma fotografia è l’antitesi netta di fotocrazia. Comprendere contro dominare, testimoniare contro catturare […] Per sopravvivere come impresa umana significativa sul piano culturale e politico, la fotografia deve trovare la via che la porti dal documento, ancora sociografico e naturalistico, alla testimonianza.»
Ma che anno è? Alla prossima.

© Augusto Pieroni (da FotoCult #78, Luglio 2011)


 

Al pascolo con rabbia (Cabo, Brasile) 1968
Al pascolo con rabbia (Cabo, Brasile) 1968
Dattilografi pubblici davanti all'Università di Lima 1972
Dattilografi pubblici davanti all’Università di Lima 1972
Venditore d'acqua del Pernambuco 1968
Venditore d’acqua del Pernambuco 1968

 

La musica della fotografia (05/2011)

Sono molto affezionato all’idea che si possa riflettere sulla fotografia grazie ad altre discipline; la musica, magari (non è cosa nuova). Lo considero un pensiero trasversale che non distrae, anzi riarticola le nostre nozioni di base. Una delle citazioni/metafore più frequenti nei miei pensieri – tanto che ormai non fa quasi più effetto quando la uso – proviene da Ansel Adams. La chiarezza e l’ineluttabilità del suo pensiero si spiegano con la sua profonda esperienza di musicista. Pur essendo fautore di un purismo con cui rivendicava l’autonomia estetica del linguaggio e del mezzo fotografico, Adams sosteneva che «il negativo è lo spartito, ma solo la stampa è l’esecuzione». Adams apriva cioè al valore dell’improvvisazione. Ora: l’improvvisazione non è casualità, ma esattamente l’opposto; e non è roba per pivelli. Solo un autore esperto sa cosa farsene del caso; tutti gli altri cercano di eliminarlo per paura che pregiudichi le poche certezze espressive o le incerte capacità tecniche. Charlie Parker o Jackson Pollock dovevano solo decidere in che direzione andare, poi… via, andavano! E questo è vero per ogni tipo di performance di livello elevato. Adams – che, grazie alla previsualizzazione necessaria al sistema zonale, sapeva perfettamente cosa avrebbe voluto tirar fuori dal suo negativo in camera oscura – non difendeva certo la casualità che distrugge coerenza e previsioni, quanto la capacità di scegliere e adottare, in corso d’opera, migliorie di performance.

Lucy Lippard e John Chandler nel 1968 scrivevano La smaterializzazione dell’arte, un saggio che presentava e analizzava l’arte concettuale e di performance; in quel saggio sostenevano che le questioni di tempo ed esposizione della fotografia sono paragonabili alla dimensione verticale della musica. La dimensione orizzontale è quel che succede alle note lungo il pentagramma: lo svolgersi della musica nel tempo della sua esecuzione. La dimensione verticale invece è quel che succede quando le note appaiono e si rapportano simultaneamente. Per capirci: è orizzontale la quantità e qualità degli accordi che, messi in serie, identificano canzoni come Heroes o Once in a Lifetime; verticale è invece la quantità e qualità delle note che distinguono un pensoso accordo di La minore, da un intrigante Sol settima aumentata. In sostanza Lippard e Chandler sostenevano che la grammatica verticale della musica (di difficile lettura e rilevabile solo da un orecchio esperto) è la base del brano eseguito, più o meno come la grammatica del fotografico, fatta di tempi d’esposizione, aperture di diaframma e ISO dei fotosensibili (difficilmente leggibile e rilevabile solo da un occhio esperto), sostiene e struttura il racconto fotografico. Il difficile e lo strutturato, insomma, stanno a base e fondamento del godibile, come la grammatica è alla base della sintassi e dello stile. E l’esperto che conosce la struttura verticale può, con essa, improvvisare una struttura orizzontale (vero nonostante l’esistenza del Dada, del Punk, del fotoamatorialismo, della Lomografia etc).

Last but not least (ultima ma non peggiore) una metafora che mi ha colpito stamane. La fotografia non sarebbe una riproduzione fedele del mondo, ma una sua cover. Fa una cover il musicista che riesegue e riadatta al proprio stile un brano celebre di altro artista. Ma c’è modo e modo di fare le cose: spesso una cover ostenta tecnicismo e accuratezza, ma l’ossessione della perfezione porta alla simulazione dell’originale e così la copia risulta inadeguata. Magari solo per il fatto che si mostra come copia. Alcune cover, invece, quasi non somigliano più all’originale (ad esempio quelle raccolte da Peter Gabriel in Scratch my Back del 2010); è allora che il musicista, interiorizzata la struttura profonda del pezzo, finisce per fare la propria cosa, pagando omaggio a uno stupore che non muore più. La fotografia non sarebbe quindi l’immagine del mondo, ma un omaggio in altro stile: un suo amorevole ripensamento per immagini, reimpiegate al fine di creare immagini nuove. Funziona! E alla prossima.

© Augusto Pieroni (da FotoCult #76, Maggio 2011)


Ansel Adams nella sua darkroom domestica, 1968
Ansel Adams nella sua darkroom domestica, 1968
J.S. Bach, manoscritto originale (non finito) del Contrapunctus XIV, 1745-51
J.S. Bach, manoscritto originale (non finito) del Contrapunctus XIV, 1745-51
Mario Giacomelli, da Io non ho mani che mi accarezzino il volto, 1962-3
Mario Giacomelli, da Io non ho mani che mi accarezzino il volto, 1962-3

Rephotography (06/2011)

Quasi quasi mi viene voglia di lanciare un concorso di rephotography, cioè di rifotografia. È forte lo sgomento che si prova quando ci si trova in un sito famoso, o importante per noi, e, tutt’a un tratto, ci troviamo esattamente nel punto da cui fu presa questa o quella fotografia che è un patrimonio fisso della nostra memoria. È un istante pazzesco, no? È un po’ come viaggiare in una macchina del tempo; un po’ come sederci sulla sedia – straordinariamente ancora calda – della Storia: la nostra storia personale o la Storia universale.

E m’è capitato. Qualche anno fa ho visitato il Museo di Ellis Island a New York. Un luogo epico per gli Stati Uniti, composta com’è la sua popolazione da discendenti di emigrati che in buona parte sono passati di lì. Un luogo eroico e tristissimo, Ellis Island: un incrocio assurdo tra la logica del centro di prima accoglienza – tipo Lampedusa – e le metodiche di indagine antropologica e medica di massa dilagate coi campi di concentramento, di lì a pochi decenni.

Frotte di immigrati – da circa 5.000 al giorno fino a picchi di 11.000! – che parlavano solo il proprio dialetto nativo, sciamavano coi loro pochi averi, appena scesi da un viaggio di poco più d’una settimana (ma costato circa mezz’anno di paga) in attesa di venir accolti da una trentina di domande rituali (tra cui quanto denaro avessero per sostentarsi). In mezzo a loro si muoveva una schiera di medici che, in circa 6 secondi, diagnosticavano una ventina di motivi clinici per cui l’immigrato, ammalandosi e gravando sulla società, non sarebbe stato un buon cittadino. Le porte d’uscita erano tre: una portava i malati curabili o in quarantena, in un ospedale annesso al centro di accoglienza. Una seconda uscita riportava alle navi quanti fossero stati giudicati, come s’è detto, inabili. La terza si apriva invece verso il Sogno Americano.

1905: il volto della giovane ebrea russa ritratta da Lewis Hine è quello di chi ha lasciato oltreoceano la propria casa, i parenti, i pochi averi, le cultura, gli usi e le abitudini; sono gli occhi di chi guarda un nuovo panorama, pieno di incognite e di promesse, ma non riesce a metterlo a fuoco. Assonnata, forse, intontita dalle mille lingue che non comprende attorno a sé, dalle parole scandite da incomprensibili controllori. Forse Lewis Hine si fa capire a gesti, forse è rassicurante, forse lasciarlo fare è la cosa meno complicata. Click! Una frazione di secondo: molto meno del tempo che serve ai medici per la loro semeiotica di massa.

2008: avevo l’inquadratura e la prospettiva della foto di Hine chiaramente stampate nella mente (anche se ora so che dovevo spostare il punto di vista un po’ più in basso e a sinistra) e – con mille limiti evidenti – ho preso una, apparentemente insignificante, foto del finestrone, una volta capito quale fosse quello giusto! Mentre premevo il tasto, però, ho avuto un brivido: mi sono fermato un attimo e, pensando a quella ragazzina, ho – per così dire – sentito il respiro di Hine sulla mia spalla. Mugolava indaffarato e diceva tra i denti: «Sono cinque anni che fotografo questi poveracci; ma, guarda, sarò si e no a metà. Quando ne ho un paio di centinaia buone, mi fermo. Sai, siamo tutti bravi a trattare male ‘sta gente; ma i Padri Pellegrini che hanno fondato l’America, in fondo, chi erano? Migranti, erano! Eh! Ma un giorno questa storia dovrà essere raccontata. Ecco…» Click!, fa lui. E click!, faccio anch’io (ma il rumore e l’effetto non sono affatto uguali). Lui fotografa una ragazza, io una massa di turisti; in mezzo ci stanno centotre anni: un oceano di senso, di motivazioni e di consapevolezze, oltre che di storia e… di acqua salata. Alla prossima.

© Augusto Pieroni (da FotoCult #77, Giugno 2011)


New York - Ellis Island, 2008
New York – Ellis Island, 2008
Lewis Hine_Giovane ebrea ad Ellis Island 1905
Lewis Hine, Giovane ebrea ad Ellis Island, 1905

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La fotografia come fatto culturale (03/2011)

Lo dico? Ma sì, dai, che male c’è? L’ho già detto! Si parla spesso di fotografi come si parlasse di calciatori o cantanti, si parla di foto come se fossero goal o canzoni, si commentano i libri o le mostre come fossero interi campionati o album celebri, e molto spesso, chiacchierando del fotografare, è come se ci trasformassimo in allenatori da bar, o cantassimo sotto la doccia. Parlare di Fotografia è però cosa assai meno comune. E si capisce: un po’ perché non è ben chiaro, a quel punto, di che cosa si stia effettivamente parlando; un po’ perché non tutti amano parlare in generale se il soggetto è reale, pratico: una roba che o la fai, o non la fai. E, se la fai, o la fai bene, oppure: aria!

Eppure ci piace molto quando un autore non è solo consapevole della macchina, dei materiali e delle tecniche che usa, non solo di quali soggetti ha scelto e quale tipologia di stile sta seguendo, ma sa anche mettere in comparazione tutto con la storia e il presente della fotografia, con le tendenze del pensiero e della cultura. Ecco, lo sapevo! L’ho detto… Ho usato la parola “cultura”! Mi spiace tenterò di non farlo più in futuro. Però sono all’antica, che volete? Ancora non riesco ad abituarmi al fatto di vivere in un Paese che ha disinvestito così drasticamente e radicalmente dalla formazione, dall’educazione e dalla cultura (ops… l’ho ridetto!).

Una noia, la cultura. No? A chi serve in Paese che si educa con la televisione? In effetti la cultura non dà da mangiare se non a quelli che sanno venderla e, insomma, il massimo della cultura che vendi è il cinema, qualche libro e una manciata tra concerti, mostre e spettacoli di prosa.

Estraiamo da questi pochi libri uno davvero particolare, dai! Sarà banale, per niente nuovo, troppo facile… ma Lezione di fotografia (originalmente: The Nature of Photographs) di Stephen Shore è e resta un investimento per la vita (circa 20 euro: economico, come investimento). Un’opera edita dalla Phaidon Press e che in inglese è sottotitolata “A Primer”: un’imprimitura, uno strato preparatorio, fondamentale, in attesa di ulteriori eventi. E la foto di Ken Josephson scelta da Shore come copertina vale da sola il prezzo del libro.

Artista e autore fotografico tra i più importanti dell’ultimo quarto di secolo e più, Stephen Shore non ha bisogno di presentazioni (in realtà sarebbe pure il caso, ma lascio il piacere al lettore); e così non ne ha bisogno il suo lavoro d’autore di spessore concettuale, di profonda capacità di autoanalisi e comprensione del mezzo e del linguaggio fotografici. E’ quasi un miracolo disporre di un libro scritto (in modo straordinariamente accessibile, anche nell’editing) da un osservatore tanto accreditato e raffinato, un testo che aiuta a vedere la fotografia come fatto stilistico, tecnico, comunicativo, estetico, insomma: culturale. The Nature of Photographs è una raccolta di un centinaio e passa di lavori fotografici, indistintamente tra autoriali e anonime, artistiche, tecniche, scientifiche, commerciali e così via. Capiremo il tenore dell’opera dal titolo delle sue quattro sezioni: il livello fisico, il livello rappresentativo, il livello mentale, modellazione mentale. Ogni foto, o ogni piccolo gruppo di esse, è accompagnato da un breve ed efficace commento che non serve tanto a spiegare storicamente le fotografie, quanto a capire – usando le immagini come esempi – come funzionano le foto e le strutture dei linguaggi basati su di esse.

Ne traggo dal mucchio un paio che mi sembrano esemplari. Nella prima Shore utilizza una propria fotografia del 1975 per spiegare che: «in certe immagini l’inquadratura è attiva. La struttura dell’immagine parte dal frame e lavora verso l’interno». Notevole: concentrarsi a pensare il bordo dell’immagine come il campo di forze col quale sono incernierati, o nel quale sono sospesi, tutti i punti di forza. Un’immagine di Frederick Sommer del 1943 lo aiuta invece a chiarire una cosa semplice e infinita, come: «ad alcune foto capita di avere uno spazio rappresentativo piuttosto superficiale, ma un profondissimo spazio mentale». Se non è cultura questa, allora cos’è? E alla prossima.

© Augusto Pieroni (da FotoCult #74, Marzo 2011)


 

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Stephen Shore, El Paso st. - Texas, 1975
Stephen Shore, El Paso st. – Texas, 1975
Frederick Sommer, Glass, 1943
Frederick Sommer, Glass, 1943