Questioni di punto di vista (08/2011)

L’avranno vista tutti, quest’immagine, ma mi pare valga la pena di affrontarla un attimo in più. Il cosiddetto “Riot Kiss” (bacio tra gli scontri) opera di Richard Lam, è stato pubblicato il 16 giugno del 2011 sul Vancouver Sun a testimonianza di quanto accaduto nella città canadese messa a ferro e fuoco dai tifosi locali dopo aver perso la finale della Stanley Cup di hockey su ghiaccio contro la squadra di Boston.

Di qui a 100 anni questa foto potrebbe ancora reggere al peso degli anni mostrandoci intatto il momento in cui un ragazzo e una ragazza imprevedibilmente si distendono e si baciano, mentre tutt’attorno a loro impazzano la follia, la violenza, le fiamme. Non è il migliore spot possibile per la forza dell’ammore? Non è l’emblema stesso della fotografia che vale più di mille parole? Non è lo stesso del marinaio che bacia l’infermiera di Alfred Eisenstaedt nel giorno in cui termina la 2° Guerra Mondiale? Non è così? No, non lo è: ma lo diventa. O lo diventerebbe, se lasciassimo la foto tranquilla, da sola; se non la ricoprissimo di indiscrezioni, intrufolandoci sempre e per forza dietro le quinte, quando non sempre quel guardare-oltre ci porta davvero al di là dell’immagine.

Innanzitutto: della stessa foto si può dare una lettura documentaria e una lettura emblematica. Se si dispone di informazioni collaterali, sia di tipo iconico sia di altra natura (immagini o, invece, resoconti, interviste, filmati etc.) si può tentare di piazzare quest’immagine all’interno di una catena di eventi, di cause e concause – fotografiche, oltre che fattuali – riducendo il numero di illazioni necessarie a spiegare a cosa essa si riferisca. Se invece non si dispone di informazioni (come avviene il più delle volte) la foto continua a comunicare, ma a un livello emblematico: dove ogni singolo elemento diviene categoria generale e astratta. Mi spiego: per una lettura documentaria i due sono: “Scott Johns e Alex Thomas”; per una emblematica sono: un uomo e una donna. Capito?
Proseguo: il contesto passa dall’effettivo: “la strada di Vancouver in preda agli scontri dove – travolti da tifosi e poliziotti – i due cadono a terra”, a un emblematico: questo mondo impazzito e selvaggio. L’azione, letta risalendo i fatti, corrisponde a: “Scott, caduto subito dopo Alex, tenta di ridare coraggio alla fidanzata, in lacrime per il panico e per l’urto con la folla”; quando, letta in senso emblematico, suona: i due si abbandonano al sentimento qualunque cosa avvenga attorno a loro, o – come ha (incredibilmente) commentato il padre di Scott su Facebook: questo vuol dire fare l’amore non la guerra!…

Il motivo che mi spinge a credere che questa foto non conserverà il suo valore emblematico è l’accanimento mediatico, o meglio: l’assortimento mediatico e l’accesso alle sue fonti. Bastava pagare ed ecco spuntare il girato di varie telecamere di sicurezza ad offrirci l’evento immortalato da Richard Lam per Getty Images, visto da altri punti di vista sia spaziali che temporali. Ora sappiamo che un fiume di gente ha travolto i due, che la polizia ha tentato di rialzarli, che lei era sotto shock, che lui ha provato a rincuorarla, che gli si sono avvicinate varie persone. Ma sappiamo anche che Lam ha scattato varie immagini e che solo su una di queste si può vedere il poliziotto, emblema degli scontri, mentre impalla, copre e rimuove dalla memoria collettiva la figura di una donna che nel frattempo si avvicinava per porgere aiuto. Non si può preferire a priori il documento rispetto all’emblema, o viceversa: occorre scegliere in base all’uso.

La forza di certe immagini come quella di Eisenstaedt è che – tolta una manciata di negativi alternativi – non si è saputo granché su chi fossero quel marinaio e quell’infermiera (morta di recente) e il perché o il percome i due si fossero trovati a baciarsi. Scott e Alex, invece, praticamente il giorno dopo erano ospiti dell’emittente canadese CBC riraccontando la loro vicenda nei minimi, pettegoli, costosi, inutili particolari; e affogando, così, nel chiacchiericcio la bella fotografia di Lam. Alla prossima.

© Augusto Pieroni (da FotoCult #79, Agosto 2011)


Richard Lam, Riot Kiss, 2011
Controcampo (da videoripresa)
Alfred Eisenstaedt, V-J Day in Times Square, 1945

La tenacia della memoria (09/2011)

Gli eventi vissuti “in diretta” – dal vivo o in tv, su un computer o altri media – restano scolpiti nella mente con una vividezza maggiore di quelli cui abbiamo assistito a distanza di tempo dal loro effettivo accadere. Ce lo confermano gli studiosi del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Winnipeg (Canada) in un articolo pubblicato sulla rivista Memory e riportato dal Corriere della Sera.it dei primi di Luglio. Sono le cosiddette “memorie flash” quelle che si imprimono in modo duraturo nel nostro repertorio mnemonico. Uno si chiederà: ma che differenza c’è tra l’aver visto un evento in diretta o in differita (consapevolmente)? E la risposta è: nei due casi cambia drasticamente il numero e la variabilità dei particolari che la nostra mente immagazzina; l’immagine in diretta resta iperdefinita e stabile; l’altra cambia faccia più facilmente – diciamo così – e non è altrettanto stabile.

Ora basta coi canadesi, e pensiamo a noi: un evento che viviamo in diretta ci “impressiona” maggiormente (la parola stessa porta verso temi fotografici) probabilmente perché sentiamo, in qualche modo, di farne parte. Ci riguarda (per dirla con Barthes), ci siamo dentro; una sua immagine è un frammento della nostra stessa esistenza. Entrare in contatto coi “fatti” di rimbalzo – diciamo – ci rende, invece, più estranei ad essi, meno attenti. Quando i fatti entrano a far parte della nostra esistenza sotto forma di notizia o di informazione perdono, insomma, la loro urgenza, la loro imprevedibilità ed esplosività per acquistare invece una spettacolarità che li rende innocui. Diventano oggetti di attenzione, non cause di attenzione.

Oltre ad aver già parlato [n° 57, settembre 2009] delle “sensazioni apicali” e della capacità che ognuno ha di trasformarsi in macchina fotografica in grado di scattare delle foto incancellabili, nonché del tema della fotografia “in diretta” o “in differita” [n° 53, aprile 2009], per non ripetermi – o forse per fare una sorta di “bretella” con gli altri due lontani articoli – mi chiedo adesso: l’esperienza fotografica del Reale (ad esempio l’esperienza di un fotoreporter) si fissa sotto forma di “memoria flash” o di “fotografia”? Insomma l’evento impressionante impressiona l’uomo con la macchina in mano, o la macchina in mano all’uomo? Ovviamente, e forse, entrambi, ma in che modo l’uno e in che modo l’altra? Siamo d’accordo che le due cose non sono la stessa? Certo, si dirà.

Parto dunque da questo tema per osservare quanto spesso accada invece che una foto, da noi realizzata, ci piaccia e che noi si continui a proporla, senza essere in grado di toglierla dalla nostra selezione finale, solo perché è l’immagine più adeguata che abbiamo della nostra personale e incomunicabile “memoria flash”. Mi spiego: la foto è un modo di dare a vedere, di visualizzare ciò cui stiamo – innegabilmente – assistendo in diretta, benché nascosti dal fragile diaframma della fotocamera. Ma ciò che portiamo via dentro di noi e ciò che portiamo via dentro la macchina, anche se fanno entrambi riferimento alla stessa Realtà di partenza, ne sono due memorizzazioni totalmente differenti; per noi – ma solo per noi che eravamo lì – entrambe hanno la qualità di “memorie flash”. Per chiunque altro (tranne chi era eventualmente al nostro fianco durante gli eventi), invece, la nostra personale “memoria flash” è completamente inafferrabile e illeggibile, mentre la nostra foto sarà forse oggetto di attenzione, probabilmente di interesse, più raramente di ossessione. Ma resterà per sempre una memoria “batch” cioè in differita. Pensiamoci quando stiamo di fronte ai nostri provini: non c’è modo di trasferire ad altri il senso e il sentimento del nostro vissuto, possiamo solo darne segno. Se la foto per noi è la prova dell’evento, per quasi tutti gli altri è l’evento! Alla prossima!

© Augusto Pieroni (da FotoCult #80, Settembre 2011)


 

Il crollo delle Twin Towers, l’11 Settembre 2001
Il crollo delle Twin Towers, l’11 Settembre 2001
L’esplosione del dirigibile Hindenburg, 1937
L’esplosione del dirigibile Hindenburg, 1937

Saluti dall’11 Settembre (10/2011)

Come ogni 11 settembre ripenso all’attentato alle torri gemelle (che vidi in diretta tv). Lo faccio rimaneggiando riflessioni che pubblicai qualche anno fa a commento di un paio di cartoline regalatemi da una mia cara amica newyorkese molto amante dei souvenir strani e grotteschi. Due cartoline acquistate poco dopo il 9/11 in un souvenir shop a New York come fossero tramonti o panorami della Grande Mela. Una è la tradizionale ripresa satellitare della City di Lower Manhattan, scattata il 10 settembre; l’altra è praticamente la stessa immagine, ma scattata il giorno successivo, dopo l’attentato. O questo è quanto riportano le vistose didascalie. Sul retro, piccole immagini del tipico skyline del World Trade Center; particolari delle torri colpite, fumanti e al momento del primo crollo; e infine due immagini di pompieri perché – va detto – i proventi della vendita delle cartoline venivano devoluti ai soccorritori sopravvissuti.

Le due cartoline rispettano lo schema “prima/dopo” noto fin dalle pubblicità dell’800. Come spesso accade, la visione del dopo è solo vagamente simile al prima. L’angolo di ripresa del 10 settembre è angolato da sud e permette di vedere l’alzato dei palazzi, la ripresa dell’11 invece è praticamente ortogonale e le architetture non sono leggibili. Le ombre del 10 sono corte e ben contrastate, l’11 sono lunghe e coprenti. I colori del 10 sono freddi, l’11 terrei e rossicci. La riquadratura del campo visivo è più stretta l’11 settembre, mentre l’angolatura del territorio è deflessa verso est rispetto al riquadro.

Un discorso a parte meritano le didascalie. Che la prima sia del 10 settembre possiamo anche dubitarne senza danno, perché il prima può ben essere un prima qualunque. Ma ildopo è inquietante. La cartolina dice “September 11, 2001”, ma il testo qui ha un ruolo emblematico anziché descrittivo. Le ombre mostrano un sole di sud-est, il che fa escludere si tratti di una foto pomeridiana. Ma l’ultimo palazzo a crollare – il cosiddetto 7 WTC – cede alle 17:20 in un’area già coperta dall’intensissimo fumo bianco derivante dal crollo di WTC 1 e 2 e destinato a permanere per giorni (come si vede dall’aerofotografia della NASA del 12 settembre). Insomma: la cartolina dell’11 settembre non è una foto di quel giorno. Lo rappresenta, però; al meglio, diremmo: mostrandoci la zona come una ferita aperta, ma sanificata, del tutto priva di ceneri e detriti, ma ancora fumante.

Constato: queste cartoline sono tratte da aerofotografie; l’obiettivo di un satellite governativo registra quel che vede nel proprio campo visivo; una cartolina idealizza le memorie; la didascalia di una cartolina è il puntello necessario di queste memorie; l’unione di queste due cartoline diviene una micro-sequenza, un potente dispositivo narrativo. Non so altro, ma capisco che qui la foto è “cosa prima”, e non è immagine fedele di una cosa reale. Cosa “sia stato” ciò che ha prodotto l’immagine, non lo devo stabilire a priori dalla sua descrizione (che non ha valore d’indizio), né dal suo riconoscimento grosso modo. Non si parla di megapixel contro ISO, è cosa segnica e narratologica. Le due cartoline di Ground Zero non provano ipotesi macchinose; non nascono da tecno-smanettamenti; non nascondono losche manovre nei retroscena del potere o della comunicazione, ma evidenziano solo piccole e meschine strategie umane. Più che a souvenir dell’orrore – inspiegabile e ingiustificabile – siamo di fronte a una mercificazione a fin di bene. Un grottesco impulso a fissare gli highlights del mondo, intravedendo nell’effimera pagina di cronaca la durata della pagina di storia ed elevando la spettacolarizzazione del lutto all’altezza di un monumento nazional-popolare alla memoria. Una memoria che ancora celebriamo con devozione. Alla prossima.

© Augusto Pieroni (da FotoCult #81, Ottobre 2011)


 

 

 

Esibire o condividere? (07/2011)

Nel 1974 Franco Ferrarotti – decano della sociologia italiana – pubblicava “Dal documento alla testimonianza. La fotografia nelle scienze sociali”. Tre quarti del testo sono presi da un centinaio di foto in b/n, mentre la scrittura assertiva e stimolante di Ferrarotti spinge il lettore ad un uso diverso della fotografia rispetto a quelli vuotamente estetizzanti o illusoriamente documentari. Libro raro, c’è scritto dentro, ma certe parole dovrebbe poterle leggere chiunque. L’autore sostiene argomenti che ancor oggi facciamo una gran fatica a difendere, accerchiati da eserciti di appassionati smanettoni, di documentaristi sensazionalisti, e di collezionisti di vedute fotogeniche.

Il libro ricorda brevemente i caposaldi della fotografia a taglio sociologico: dai poveri ritratti nell’Inghilterra di metà ‘800 da Beard, Thompson o Smith, a Jacob Riis; dai documentari di Levitskij e Kusnezov nella Russia del 1917, agli Stati Uniti della F.S.A. e di LIFE. L’epoca d’oro della fede nella purezza astorica del documento fotografico si esaurisce nel dopoguerra, con l’emergere della cronaca televisiva. La fotografia antropologica già a suo tempo aveva trovato fotogenico il selvaggio e l’altro, soggetti della colonializzazione, e li aveva studiati con distacco e ammirazione come specie da possedere e collezionare. Spiega invece Ferrarotti che convivere e fraternizzare con le persone di cui si vogliono capire le condizioni di vita – ed eventualmente testimoniarle – non è un optional. Quando si entra nell’intimità, nel privato, della gente per esporne le debolezze, le nudità (“parading the nakedness” diceva James Agee) si deve usare umanità e senso di responsabilità. La quotidianità è sfuggente e tutt’altro che facile da analizzare, rimarca l’autore. Il freddo realismo dell’obiettivo – insensibile ai particolari spiacevoli – la sua impassibile e onnivora cattura del reale, torna di grande aiuto per recuperare il valore del documento, la sua importanza come testimonianza.

Lascio la parola a Ferrarotti: «Si spendono miliardi per esplorare lo spazio, ma perdiamo intanto appuntamenti importanti, decisivi con la condizione umana […] La fotografia solleva il problema dell’autenticità, del reale, e dei surrogati del reale, dell’autentico come non doppiabile, non riducibile, non meccanicamente riproducibile […] La realtà umana è significato – concrezione, costruzione di significati rappresi – essa non può trovarsi nella fotografia, ma nell’intenzione del fotografo […] Se non c’è l’intenzione cade anche il significato, cioè il criterio selettivo, il dato emergente, la variabile decisiva […] Fotografare per fotografare non significa nulla; isolato dal contesto e non riscattato dall’intenzione, il documento fotografico si riduce al gesto consumistico […] Il fotografo non necessitato, il fotografo turistico è come un cacciatore privo di fucile, di occhi, di mira, di nervi e di scatto.»

«Gli insegnamenti della fotografia si sono sempre preoccupati di dirci come fotografare. Ma, quando il come diviene più importante del perché, la perfezione – scriveva Ferrarotti – resta priva di scopo […] La commozione, insieme con la bellezza, è una cattiva consigliera […] I bambini vanno fotografati solo se funzionano come […] simboli abbreviati di una situazione globale […] La povertà è noiosa, si ripete. Fotografarla è difficile perché è difficile fotografare la mancanza di oggetti, il vuoto, la penuria. Bisogna fotografare la povertà con pazienza e devozione […] C’è un atto d’amore in ogni fotografia, [un bisogno] di significare al di là del puro documento.»

«Io – dice ancora Ferrarotti – fotografo ripetendomi a mezza voce le ragioni del mio fotografare […] Fotografare vuol dire saper aspettare, circuire, avvitarsi sull’oggetto a ghermirlo repentinamente, ma fotografia è l’antitesi netta di fotocrazia. Comprendere contro dominare, testimoniare contro catturare […] Per sopravvivere come impresa umana significativa sul piano culturale e politico, la fotografia deve trovare la via che la porti dal documento, ancora sociografico e naturalistico, alla testimonianza.»
Ma che anno è? Alla prossima.

© Augusto Pieroni (da FotoCult #78, Luglio 2011)


 

Al pascolo con rabbia (Cabo, Brasile) 1968
Al pascolo con rabbia (Cabo, Brasile) 1968
Dattilografi pubblici davanti all'Università di Lima 1972
Dattilografi pubblici davanti all’Università di Lima 1972
Venditore d'acqua del Pernambuco 1968
Venditore d’acqua del Pernambuco 1968

 

La musica della fotografia (05/2011)

Sono molto affezionato all’idea che si possa riflettere sulla fotografia grazie ad altre discipline; la musica, magari (non è cosa nuova). Lo considero un pensiero trasversale che non distrae, anzi riarticola le nostre nozioni di base. Una delle citazioni/metafore più frequenti nei miei pensieri – tanto che ormai non fa quasi più effetto quando la uso – proviene da Ansel Adams. La chiarezza e l’ineluttabilità del suo pensiero si spiegano con la sua profonda esperienza di musicista. Pur essendo fautore di un purismo con cui rivendicava l’autonomia estetica del linguaggio e del mezzo fotografico, Adams sosteneva che «il negativo è lo spartito, ma solo la stampa è l’esecuzione». Adams apriva cioè al valore dell’improvvisazione. Ora: l’improvvisazione non è casualità, ma esattamente l’opposto; e non è roba per pivelli. Solo un autore esperto sa cosa farsene del caso; tutti gli altri cercano di eliminarlo per paura che pregiudichi le poche certezze espressive o le incerte capacità tecniche. Charlie Parker o Jackson Pollock dovevano solo decidere in che direzione andare, poi… via, andavano! E questo è vero per ogni tipo di performance di livello elevato. Adams – che, grazie alla previsualizzazione necessaria al sistema zonale, sapeva perfettamente cosa avrebbe voluto tirar fuori dal suo negativo in camera oscura – non difendeva certo la casualità che distrugge coerenza e previsioni, quanto la capacità di scegliere e adottare, in corso d’opera, migliorie di performance.

Lucy Lippard e John Chandler nel 1968 scrivevano La smaterializzazione dell’arte, un saggio che presentava e analizzava l’arte concettuale e di performance; in quel saggio sostenevano che le questioni di tempo ed esposizione della fotografia sono paragonabili alla dimensione verticale della musica. La dimensione orizzontale è quel che succede alle note lungo il pentagramma: lo svolgersi della musica nel tempo della sua esecuzione. La dimensione verticale invece è quel che succede quando le note appaiono e si rapportano simultaneamente. Per capirci: è orizzontale la quantità e qualità degli accordi che, messi in serie, identificano canzoni come Heroes o Once in a Lifetime; verticale è invece la quantità e qualità delle note che distinguono un pensoso accordo di La minore, da un intrigante Sol settima aumentata. In sostanza Lippard e Chandler sostenevano che la grammatica verticale della musica (di difficile lettura e rilevabile solo da un orecchio esperto) è la base del brano eseguito, più o meno come la grammatica del fotografico, fatta di tempi d’esposizione, aperture di diaframma e ISO dei fotosensibili (difficilmente leggibile e rilevabile solo da un occhio esperto), sostiene e struttura il racconto fotografico. Il difficile e lo strutturato, insomma, stanno a base e fondamento del godibile, come la grammatica è alla base della sintassi e dello stile. E l’esperto che conosce la struttura verticale può, con essa, improvvisare una struttura orizzontale (vero nonostante l’esistenza del Dada, del Punk, del fotoamatorialismo, della Lomografia etc).

Last but not least (ultima ma non peggiore) una metafora che mi ha colpito stamane. La fotografia non sarebbe una riproduzione fedele del mondo, ma una sua cover. Fa una cover il musicista che riesegue e riadatta al proprio stile un brano celebre di altro artista. Ma c’è modo e modo di fare le cose: spesso una cover ostenta tecnicismo e accuratezza, ma l’ossessione della perfezione porta alla simulazione dell’originale e così la copia risulta inadeguata. Magari solo per il fatto che si mostra come copia. Alcune cover, invece, quasi non somigliano più all’originale (ad esempio quelle raccolte da Peter Gabriel in Scratch my Back del 2010); è allora che il musicista, interiorizzata la struttura profonda del pezzo, finisce per fare la propria cosa, pagando omaggio a uno stupore che non muore più. La fotografia non sarebbe quindi l’immagine del mondo, ma un omaggio in altro stile: un suo amorevole ripensamento per immagini, reimpiegate al fine di creare immagini nuove. Funziona! E alla prossima.

© Augusto Pieroni (da FotoCult #76, Maggio 2011)


Ansel Adams nella sua darkroom domestica, 1968
Ansel Adams nella sua darkroom domestica, 1968
J.S. Bach, manoscritto originale (non finito) del Contrapunctus XIV, 1745-51
J.S. Bach, manoscritto originale (non finito) del Contrapunctus XIV, 1745-51
Mario Giacomelli, da Io non ho mani che mi accarezzino il volto, 1962-3
Mario Giacomelli, da Io non ho mani che mi accarezzino il volto, 1962-3

Rephotography (06/2011)

Quasi quasi mi viene voglia di lanciare un concorso di rephotography, cioè di rifotografia. È forte lo sgomento che si prova quando ci si trova in un sito famoso, o importante per noi, e, tutt’a un tratto, ci troviamo esattamente nel punto da cui fu presa questa o quella fotografia che è un patrimonio fisso della nostra memoria. È un istante pazzesco, no? È un po’ come viaggiare in una macchina del tempo; un po’ come sederci sulla sedia – straordinariamente ancora calda – della Storia: la nostra storia personale o la Storia universale.

E m’è capitato. Qualche anno fa ho visitato il Museo di Ellis Island a New York. Un luogo epico per gli Stati Uniti, composta com’è la sua popolazione da discendenti di emigrati che in buona parte sono passati di lì. Un luogo eroico e tristissimo, Ellis Island: un incrocio assurdo tra la logica del centro di prima accoglienza – tipo Lampedusa – e le metodiche di indagine antropologica e medica di massa dilagate coi campi di concentramento, di lì a pochi decenni.

Frotte di immigrati – da circa 5.000 al giorno fino a picchi di 11.000! – che parlavano solo il proprio dialetto nativo, sciamavano coi loro pochi averi, appena scesi da un viaggio di poco più d’una settimana (ma costato circa mezz’anno di paga) in attesa di venir accolti da una trentina di domande rituali (tra cui quanto denaro avessero per sostentarsi). In mezzo a loro si muoveva una schiera di medici che, in circa 6 secondi, diagnosticavano una ventina di motivi clinici per cui l’immigrato, ammalandosi e gravando sulla società, non sarebbe stato un buon cittadino. Le porte d’uscita erano tre: una portava i malati curabili o in quarantena, in un ospedale annesso al centro di accoglienza. Una seconda uscita riportava alle navi quanti fossero stati giudicati, come s’è detto, inabili. La terza si apriva invece verso il Sogno Americano.

1905: il volto della giovane ebrea russa ritratta da Lewis Hine è quello di chi ha lasciato oltreoceano la propria casa, i parenti, i pochi averi, le cultura, gli usi e le abitudini; sono gli occhi di chi guarda un nuovo panorama, pieno di incognite e di promesse, ma non riesce a metterlo a fuoco. Assonnata, forse, intontita dalle mille lingue che non comprende attorno a sé, dalle parole scandite da incomprensibili controllori. Forse Lewis Hine si fa capire a gesti, forse è rassicurante, forse lasciarlo fare è la cosa meno complicata. Click! Una frazione di secondo: molto meno del tempo che serve ai medici per la loro semeiotica di massa.

2008: avevo l’inquadratura e la prospettiva della foto di Hine chiaramente stampate nella mente (anche se ora so che dovevo spostare il punto di vista un po’ più in basso e a sinistra) e – con mille limiti evidenti – ho preso una, apparentemente insignificante, foto del finestrone, una volta capito quale fosse quello giusto! Mentre premevo il tasto, però, ho avuto un brivido: mi sono fermato un attimo e, pensando a quella ragazzina, ho – per così dire – sentito il respiro di Hine sulla mia spalla. Mugolava indaffarato e diceva tra i denti: «Sono cinque anni che fotografo questi poveracci; ma, guarda, sarò si e no a metà. Quando ne ho un paio di centinaia buone, mi fermo. Sai, siamo tutti bravi a trattare male ‘sta gente; ma i Padri Pellegrini che hanno fondato l’America, in fondo, chi erano? Migranti, erano! Eh! Ma un giorno questa storia dovrà essere raccontata. Ecco…» Click!, fa lui. E click!, faccio anch’io (ma il rumore e l’effetto non sono affatto uguali). Lui fotografa una ragazza, io una massa di turisti; in mezzo ci stanno centotre anni: un oceano di senso, di motivazioni e di consapevolezze, oltre che di storia e… di acqua salata. Alla prossima.

© Augusto Pieroni (da FotoCult #77, Giugno 2011)


New York - Ellis Island, 2008
New York – Ellis Island, 2008
Lewis Hine_Giovane ebrea ad Ellis Island 1905
Lewis Hine, Giovane ebrea ad Ellis Island, 1905

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Mona Kuhn, the Garden of Eden (2007)

The naturist community portrayed by Mona Kuhn – Brazilian born artist living in California – is shown through skillful photographic compositions made of precise points of focus and arranging of poses, planes, lines and tones. The languages of bodies and faces, though, also convey a distinct sense of nudity as a natural condition, not as a source of allusion. We feel that the affective relations, not the sensual ones, are what really matters.

We are not to know what goes on inside the minds of the girls and boys who appear, naked, in Mona Kuhn’s elegant portraits. In their eyes, in their poses, in the traits of their faces and bodies, we perceive tranquility: a relaxed attention. We understand that – so as in the mind and eye of the artist likewise in those of the models – nudity, instead of being source of allusion or political forge of self representation, is instead a natural, primary, instinctive and pure condition. We instinctively perceive that the artist’s priority is another one, what counts are people and their affective relationships, opposed to sensual ones. The nudity of these photographs has us think differently: to reconsider the body in terms of relations, of emotional atmosphere, not desire. This is quite the contrary to what has been said and done since the body has become, on one side, an instrument of identitary renegotiation and of political struggle and on the other a huge budget sheet item for consumer companies, be they in fitness or eroticism.

Born in 1969 from a German family in São Paolo in Brazil, Kuhn grows professionally as a visual artist by moving to Los Angeles – California. And this detail seems fundamental to me rather because California has always represented the archetype of an alternative America than because of the renowned photographic tradition it is cradle to. Besides, Mona Kuhn spends her summers in France, in a coastal area where a flourishing naturist community set base immediately after the Second World War. Her photographs originate here, involving only friends who – like everyone there – live relaxed without clothes, and focus more on interacting with the artist, almost concerting together with her on the poses to assume; in a natural way, following a flux, careless of lime lights and main characters. The camera is in fact hand held and there is no artificial lighting. We aren’t in a photographical studio, there are no briefs, time and light gently flow around the subjects and the images are woven together with the flowing of life; and yet what we are looking at are neither portraits nor photojournalistic images.

The focus of the Brazilian artist is in fact to create works of art, to gently fit the softness of the body inside the rigid cage that is the square frame of the medium format, resulting in a composition that exudes all the humanity, all the soul – let’s put it this way – of people and their inner panoramas. The skin of the body exhales a beauty far from being pictorial or tedious. And if every series is a variation to this theme, every single work is a variation of the atmospheres of the series to which it belongs. In Kuhn’s acceptation of photographic language her will to divert attention from the naked exposed body is clearly perceived: hence the alternating of black and white and color, the typical out of focus effects obtained thanks to a severe usage of field depth or the recent addition of glass surfaces available on location. The composition and the theme adopt such reflections that, according to the light angle, may go from transparent to refracting. And all the times the diagonals are marked whether by skillful perspectival progressions or by simple profiles; the vertical axes are hidden among doors, shadows, reflections or shoulder profiles.

A modernist key interpretation could endlessly investigate the high profiled aesthetic output of Mona Kuhn’s pictures; a humanistic interpretation instead could point out a deep mental tie between author and subjects: the sharing and experiencing of the same reality. Yet, while observing these works, suddenly, images, implications, ideas, considerations, comparisons can emerge which certainly go beyond the artist’s will. Germany; German naturism of the twenties and thirties: the health consciousness of gymnastic exercises (gymnos= naked) beneath the sun divinized by Arians. California; the exhaustive nude studies by Imogen Cunningham: portraits of her friends, her children and her family, but also extremely controlled and concise artworks both as compositions and tone arrangements. Diane Arbus; the nudist communities with whom she chose to live to be able to experience that instinctive naturalness in first person, that primordial equality she was not familiar with. Sally Mann and Jock Sturges; the heroic strain to prove that poetry exists: that authors intent in observing their own children grow and evolve, photographing their entire lives without clothes on, shouldn’t for this be considered morbid. While I observe Mona Kuhn’s photographs even the bodily fetish easily recognizable in many aspect of Brazilian culture comes to my mind: on the beach,

© Augusto Pieroni (MUSE Magazine, #8, 2007)


ITALIAN VERSION


La comunità naturista ritratta da Mona Kuhn – artista brasiliana naturalizzata in California – viene vista secondo una raffinata composizione fotografica fatta di messe a fuoco selettive e organizzazioni di gesti, piani, linee e toni. Dal linguaggio dei volti e dei corpi però percepiamo anche che la nudità è vissuta come una condizione naturale, non come fonte di allusioni: sentiamo che contano le relazioni affettive, non quelle sensuali.

Noi non sappiamo quali pensieri affollino la mente dei ragazzi e delle ragazze che compaiono, nudi, negli eleganti ritratti fotografici di Mona Kuhn. Percepiamo nei loro occhi, dai loro gesti, dal linguaggio del volti e da quello dei corpi, una calma: come una rilassata attenzione. Comprendiamo che – tanto nella mente e nell’occhio dell’artista che in quelli dei suoi modelli – la nudità, anziché essere fonte di allusioni o terreno politico di autorappresentazioni, è invece condizione naturale, originaria, istintiva e pura. Sentiamo istintivamente che la priorità è data ad altro, che contano le persone e le loro relazioni affettive, non quelle sensuali. Il nudo di queste fotografie ci obbliga a pensare diversamente: a ripensare il corpo in termini di relazioni, di atmosfera emozionale, non di desiderio. E questo contrariamente a ciò che si è fatto e pensato da quando il corpo è divenuto, da un lato, uno strumento di rinegoziazione identitaria e di lotta politica e dall’altro, un gigantesco capitolo di bilancio per le industrie del consumo, siano esse della fitness o dell’erotismo.

Nata nel 1969 da famiglia tedesca a San Paolo del Brasile, la Kuhn cresce professionalmente come artista visiva in America stabilendosi in California, a Los Angeles. E questo dato mi pare fondamentale più perché la California ha a lungo incarnato un’idea di America alternativa, che per l’inevitabile tradizione fotografica cui ha dato vita. Mona Kuhn passa però anche i mesi estivi in Francia, in un luogo costiero dove dopo la 2° guerra mondiale si è insediata un’ampia comunità nudista. Le sue fotografie nascono lì, coinvolgendo solo persone amiche, che – come tutti in quel luogo – vivono rilassate senza vestiti, e si concentrano piuttosto sull’interazione con l’autrice, quasi concertando insieme i gesti e le posture; in modo naturale, seguendo un flusso senza protagonismi o riflettori. E infatti la macchina è tenuta in mano, non c’è che la luce del sole. Non siamo in uno studio fotografico, non ci sono ordini di lavoro, il tempo e la luce fluiscono morbidamente attorno alle persone e le immagini sono intessute col fluire della vita; eppure non stiamo osservando dei ritratti né un reportage. La volontà dell’artista brasiliana è infatti quella di realizzare delle opere d’arte, di adattare la morbidezza del corpo entro la rigida gabbia del frame quadrato del medio formato, traendone una composizione che però trasudi tutta l’umanità, tutta l’anima – diciamo così – delle persone e dei loro panorami interiori. La pelle dei corpi emana una bellezza per nulla pittorica o stucchevole. E se ogni serie è una variazione su questo stesso tema, ogni singolo lavoro è una variazione sulle atmosfere della serie cui appartiene. Nel uso che la Kuhn fa del linguaggio fotografico c’è poi tutta la sua volontà di defocalizzare l’attenzione dal corpo esposto nudo: così l’alternanza di b/n e colore, le tipiche sfocature ottenute mediante una severissima selettività sulla profondità di campo o la recente aggiunta delle superfici vetrate disponibili on location. La composizione e il pensiero si avvalgono di tali riflessi che, a seconda dell’angolo di incidenza della luce, possono risultare da trasparenti a specchianti. E le diagonali continuano ad essere segnate da sapienti gerarchie prospettiche o da semplici profili; gli assi verticali restano occultati in infissi, ombre, riflessi o linee di una spalla.

Una lettura di taglio modernista potrebbe continuare all’infinito l’indagine del vertiginoso livello formale nelle fotografie di Mona Kuhn; una lettura umanistica potrà invece riscontrare, tra autrice e figure, una profondissima assonanza mentale, un convivere e condividere lo stesso piano di realtà. Ma mentre si osserva questi lavori, di colpo, possono riemergere immagini, implicazioni, idee, confronti e considerazioni che, certamente, sfuggono al volere dell’artista. La Germania; il naturismo tedesco degli anni ‘20 e ‘30: il salutismo degli esercizi ginnici (gymnos = nudo) sotto il sole divinizzato dagli ariani. La California; gli estensivi studi sul nudo di Imogen Cunningham: ritratti di amiche, dei figli, della famiglia, ma anche composizioni serratissime e controllate sia nella composizione che nei toni. Diane Arbus; le comunità nudiste con cui volle convivere per poter sperimentare sulla propria pelle quella naturalità istintiva, quell’uguaglianza primordiale che la sua educazione non le aveva insegnato. Sally Mann e Jock Sturgess; la fatica eroica di dimostrare che la poesia esiste: che autori intenti a veder crescere e mutare i propri figli, fotografandoli per una vita intera senza vestiti, non per questo devono essere accusati di morbosità. Mentre osservo le fotografie di Mona Kuhn mi torna in mente perfino quel feticismo del corpo che è facile riscontrare in ogni risvolto della cultura Brasiliana: in spiaggia, in discoteca, per la strada. Ma di tutto questo traffico di idee le serene, edeniche composizioni di emozioni di Mona Kuhn – a loro volta – non sanno nulla.

http://www.monakuhn.com/static/files/Muse0507_MK.pdf


all photos © Mona Kuhn
all photos © Mona Kuhn

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L’emblema della fotografia (04/2011)

Questo mese non vorrei parlare di fotografia, quanto farle un omaggio. Trasferirò perciò qui qualche pensiero che mi è venuto spontaneo mentre visitavo i marmi del Partenone al British Museum (sono di quelle cose che c’è sempre un buon motivo per vederle una volta in più, e credo che proprio per questo le chiamiamo Classici). Osservavo il magistrale modo in cui Fidia, responsabile della decorazione del Partenone, avesse risolto il problema dell’angolo acuto in fondo a sinistra nel timpano (lo spazio triangolare che sovrasta la facciata dei templi antichi). Invece di metterci – che so? – la solita figura umana sdraiata, coi piedi che astutamente si infilano nell’angusto spazio architettonico, il geniale scultore greco aveva scelto di trattarvi nientemeno che il tema dell’alba, contrapposta al tramonto, sistemato nell’angolo opposto. Tutto molto difficile e, insieme, glorioso e poetico. Glorioso perché in effetti l’antica Grecia rappresentava il sole come un carro, guidato dal dio Apollo saettante, trainato da un tiro di cavalli; una rappresentazione che resisterà nella romanità fino alle soglie del cristianesimo, se è vero com’è vero che si ritrova perfino nei primi culti cristiani di matrice ariana. La poeticità invece sta nella raffinata metafora dell’alba come un sorgere del sole dalle acque del mare: un fenomeno rappresentato dall’emergere delle sole teste di Apollo e di quattro cavalli, da un abisso invisibile. Il timpano insomma si trasforma in una gigantesca inquadratura fotografica triangolare che taglia via il corpo del dio, il suo carro e i corpi dei cavalli – immaginati tutti sott’acqua, e perciò invisibili sotto il livello dell’architrave – per mostrare soltanto ciò che se ne vedrebbe nel caso stessero nuotando verso la riva poco prima di riemergere. Un caso analogo ce lo offre una fascinosa immagine tratta dal lontanissimo mondo giapponese: un ukiyo-e di Utagawa del 1845 (sempre del British Museum) che mostra dei samurai in sella ai loro cavalli mentre guadano il fiume Uji.

Ora, si dirà: «che c’entra la fotografia?» Pensandoci bene, apparirà ovvio: il sole è una tipica metafora della fotografia (ai suoi primordi eliografia, da helios: sole), e non meno evocativo mi pare il fatto che l’immagine fotografica sia un’impresa a tirare avanti la quale ci vogliono più cavalli, più capacità. Il suo emergere dalle acque con un certo sforzo titanico, ma con la naturale ineluttabilità del sorgere del giorno, mi pareva una meravigliosa maniera per visualizzare l’emergere della fotografia dalle vasche dei liquidi di sviluppo e poi di fissaggio. Ineluttabile come la rettilinearità della luce, come la ciclicità dell’alba. Occorre ricordare – a quanti pensassero che il marmo bianco, con le sue ombre, possa eventualmente rimandare al bianco e nero – che l’aspetto originario della scultura architettonica greca era colorato; perciò, riassumendo, direi che chiaroscuro (b/n) e colore sono omaggiati entrambi da questa scultura. Ed è così che, guardando un marmo del Partenone (V sec. a.C.) ho letteralmente visto l’emblema della fotografia.

Certo, resta escluso da questo emblema tutto il mondo digitale – impossibile da trovare nei simboli e nelle tecniche dell’arte greca – ma bisogna pur ricordare che siamo di fronte a un monumento dell’arte classica: ci sta che l’omaggio vada alla fotografia classica e non a tutta quella che è poi divenuta nel frattempo. Vero è però che la presenza di questo frammento scultoreo nella coscienza universale è oggi più che mai dovuto al suo fluttuare nella rete virtuale del web – osservabile in Alaska, ad Atene o a Londra – com’è anche vero che la foto stessa che mi sono portato via per parlarvi di questo capriccio è una foto digitale. Ma forse l’elemento più metaforico di questa scultura è che l’arte greca, la sua composizione e le stesse linee delle architetture in cui era inserita, erano pensati come numeri: calcoli, proporzioni, coniche. Se è così, la fotografia numerica (come dicono i francesi) sta anch’essa in questo omaggio. Che qui – per pudore e per non farla diventare inutilmente lunga e involuta – è bene far terminare. E alla prossima.

© Augusto Pieroni (da FotoCult #75, Aprile 2011)


Carro di Apollo, dal timpano del Partenone (V sec. a.C.) - British Museum, Londra
Carro di Apollo, dal timpano del Partenone (V sec. a.C.) – British Museum, Londra
Particolare del timpano del Partenone, Atene
Particolare del timpano del Partenone, Atene
Utagawa Kuniyoshi, Takatsuna e due rivali sul fiume Uji, 1845
Utagawa Kuniyoshi, Takatsuna e due rivali sul fiume Uji, 1845

La fotografia come fatto culturale (03/2011)

Lo dico? Ma sì, dai, che male c’è? L’ho già detto! Si parla spesso di fotografi come si parlasse di calciatori o cantanti, si parla di foto come se fossero goal o canzoni, si commentano i libri o le mostre come fossero interi campionati o album celebri, e molto spesso, chiacchierando del fotografare, è come se ci trasformassimo in allenatori da bar, o cantassimo sotto la doccia. Parlare di Fotografia è però cosa assai meno comune. E si capisce: un po’ perché non è ben chiaro, a quel punto, di che cosa si stia effettivamente parlando; un po’ perché non tutti amano parlare in generale se il soggetto è reale, pratico: una roba che o la fai, o non la fai. E, se la fai, o la fai bene, oppure: aria!

Eppure ci piace molto quando un autore non è solo consapevole della macchina, dei materiali e delle tecniche che usa, non solo di quali soggetti ha scelto e quale tipologia di stile sta seguendo, ma sa anche mettere in comparazione tutto con la storia e il presente della fotografia, con le tendenze del pensiero e della cultura. Ecco, lo sapevo! L’ho detto… Ho usato la parola “cultura”! Mi spiace tenterò di non farlo più in futuro. Però sono all’antica, che volete? Ancora non riesco ad abituarmi al fatto di vivere in un Paese che ha disinvestito così drasticamente e radicalmente dalla formazione, dall’educazione e dalla cultura (ops… l’ho ridetto!).

Una noia, la cultura. No? A chi serve in Paese che si educa con la televisione? In effetti la cultura non dà da mangiare se non a quelli che sanno venderla e, insomma, il massimo della cultura che vendi è il cinema, qualche libro e una manciata tra concerti, mostre e spettacoli di prosa.

Estraiamo da questi pochi libri uno davvero particolare, dai! Sarà banale, per niente nuovo, troppo facile… ma Lezione di fotografia (originalmente: The Nature of Photographs) di Stephen Shore è e resta un investimento per la vita (circa 20 euro: economico, come investimento). Un’opera edita dalla Phaidon Press e che in inglese è sottotitolata “A Primer”: un’imprimitura, uno strato preparatorio, fondamentale, in attesa di ulteriori eventi. E la foto di Ken Josephson scelta da Shore come copertina vale da sola il prezzo del libro.

Artista e autore fotografico tra i più importanti dell’ultimo quarto di secolo e più, Stephen Shore non ha bisogno di presentazioni (in realtà sarebbe pure il caso, ma lascio il piacere al lettore); e così non ne ha bisogno il suo lavoro d’autore di spessore concettuale, di profonda capacità di autoanalisi e comprensione del mezzo e del linguaggio fotografici. E’ quasi un miracolo disporre di un libro scritto (in modo straordinariamente accessibile, anche nell’editing) da un osservatore tanto accreditato e raffinato, un testo che aiuta a vedere la fotografia come fatto stilistico, tecnico, comunicativo, estetico, insomma: culturale. The Nature of Photographs è una raccolta di un centinaio e passa di lavori fotografici, indistintamente tra autoriali e anonime, artistiche, tecniche, scientifiche, commerciali e così via. Capiremo il tenore dell’opera dal titolo delle sue quattro sezioni: il livello fisico, il livello rappresentativo, il livello mentale, modellazione mentale. Ogni foto, o ogni piccolo gruppo di esse, è accompagnato da un breve ed efficace commento che non serve tanto a spiegare storicamente le fotografie, quanto a capire – usando le immagini come esempi – come funzionano le foto e le strutture dei linguaggi basati su di esse.

Ne traggo dal mucchio un paio che mi sembrano esemplari. Nella prima Shore utilizza una propria fotografia del 1975 per spiegare che: «in certe immagini l’inquadratura è attiva. La struttura dell’immagine parte dal frame e lavora verso l’interno». Notevole: concentrarsi a pensare il bordo dell’immagine come il campo di forze col quale sono incernierati, o nel quale sono sospesi, tutti i punti di forza. Un’immagine di Frederick Sommer del 1943 lo aiuta invece a chiarire una cosa semplice e infinita, come: «ad alcune foto capita di avere uno spazio rappresentativo piuttosto superficiale, ma un profondissimo spazio mentale». Se non è cultura questa, allora cos’è? E alla prossima.

© Augusto Pieroni (da FotoCult #74, Marzo 2011)


 

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Stephen Shore, El Paso st. - Texas, 1975
Stephen Shore, El Paso st. – Texas, 1975
Frederick Sommer, Glass, 1943
Frederick Sommer, Glass, 1943