Futurismo e adiacenze

Futurismo e adiacenze

di Claudio Crescentini

Avevamo vegliato tutta la notte – i miei amici ed io – sotto lampade di moschea dalle cupole di ottone traforato, stellate come le nostre anime, perché come queste irradiate dal chiuso fulgòre di un cuore elettrico. Avevamo lungamente calpestata su opulenti tappeti orientali la nostra atavica accidia, discutendo davanti ai confini estremi della logica ed annerendo molta carta di frenetiche scritture.
(F. T. Marinetti)

Tutto iniziò così, o almeno lo start più plateale e pubblicitario dell’ “inizio” fu così, con il Manifesto del Futurismo, il primo, a firma di Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), pubblicato su Le Figaro di Parigi il 20 febbraio 1909, anche se qualcosa era già nell’aria in Europa: il sentimento del futuro e la voglia di avvenire, le macchine e la corsa, le città tentacolari e le fabbriche, gli “(…) operai, scioperi, repressioni, (…) fatti determinanti per il nascere e lo svilupparsi di stati d’animo, affetti, comportamenti, scelte politiche e culturali, sentimenti e idee che costituiscono la personalità di un uomo e che, se lui scrive (o meglio crea), operano più o meno consciamente dentro di lui e determinano o guidano le sue scelte di temi, di lingua, di stile” (G. Petronio).

Tutto iniziò così, anche se non sempre inizia tutto così e, nel nostro preciso caso, c’era già stato: l’operato filmico dell’ex-mago illusionista Georges Mèliés (1861-1938); le sculture di Medardo Rosso (1858-1928) e i suoi personaggi inseriti in un vero e proprio continuum fenomenico svolto fra “memoria” e “durata” della sensazione esterna-interna; Canudo Ricciotto (1877-1923) “le barisien de Paris”; Eadweard Muybridge (1830-1904) e la sperimentazione della “fotografia in movimento” sulla corsa del cavallo e, nel 1907, le prime esperienze di fototelegrafia con Arthur Korn (1870-1945), svolte fra Monaco, Berlino, Parigi e Londra; il Neoimpressionismo francese e il Divisionismo italiano con Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868-1907) e Gaetano Previati (1852-1920); i poeti simbolisti tanto amati da Marinetti insieme al volume Il Verso Libero pubblicato nel 1908 da Gian Pietro Lucini (1867-1914); in qualche modo Gabriele D’Annunzio, solo per citare i più eclatanti, in una alquanto caotica rincorsa di nomi, momenti, sentimenti e situazioni già decisamente proiettate verso l'”inizio” del marinettiano futuro.

Così come nel campo della vita moderna, anzi della “nuova” vita moderna del Novecento, con la divulgazione, nel 1905, della teoria di Albert Einstein (1879-1955) sulla relatività ristretta, mediante la quale viene individuata la velocità della luce nel vuoto come costante indipendente da quella della sorgente luminosa; la nascita a Detroit della General Motors Company nel 1908 e, l’anno dopo, la “sensazionale”, almeno dal punto di vista marinettiano, trasvolata della Manica da parte di Louis Blériot (1872-1936) e nel 1910 la realizzazione, con Georges Claude (1870-1960) dei primi tubi al neon e del primo motore diesel per automobili.

Un inizio perciò, visto in questa estrema sintesi della Storia, alquanto aleatorio se si pensa che già un narratore italiano della seconda metà dell’Ottocento romantico, Giovanni Faldella (1846-1928), in un romanzo ormai sconosciuto ai più, Tota Nerina, andava annunciando che il nuovo fine dell’artista moderno doveva essere rivolto verso la nascente realtà in movimento, atto ad innalzare proprio quella “nuova” realtà dalla quale la coscienza e la tecnica, aprivano ormai all’uomo le problematiche della moderna società borghese, industriosa, ma non ancora prettamente industriale per quanto riguarda l’Italia giolittiana, della scienza e degli affari, della tecnica e della macchina appunto.

Così come farà, sempre per una rincorsa al “tutto iniziò così” e con tutte le differenze di stile, impostazione e cultura, Gabriel Alomar (1873-1941) in una conferenza tenuta presso l’Ateneo di Barcellona, il 18 giugno 1904 ed intitolata, guarda caso, El Futurisme. Alomar in un vero e proprio fervore modernista incitava, dall’iberica tribuna universitaria e qualche momento prima di Marinetti, proprio verso un attivo “(…) credo al continuo e misterioso divenire di tutta la natura, nel lavorio millenario che trasforma e distrugge le cose, che estrae la vita e la coscienza dalla massa amorfa del caos” (G. Alomar).

Il testo della conferenza compare prima in catalano, nel volume edito da L’Avenc nel 1905, poi tradotto in spagnolo nella rivista Renacimiento – sett.-nov. 1907 -, recensito nel 1908, in maniera entusiasta, da Marcel Robin nel parigino Mercure de France, rivista amata e letta da Marinetti stesso nella quale, nel 1905 aveva a sua volta pubblicato Le Roi Bombance. Rubén Darìo nel 1907, sempre prima del “primo manifesto”, ricorda a Marinetti stesso, in un articolo pubblicato sulla rivista da questi fondata e diretta Poesia che il futurismo deve accogliere come “prestigioso padre” proprio Alomar.

Comunque non possiamo assolutamente considerarlo un caso “regionale”, isolato e “lontano”, anche se il resto arriverà poi, in maniera più acuta e definita proprio con Marinetti, “centrifuga” delle nuove tendenze, e il 1909, per divenire Storia e Storie, fatte di Arti, grandi artisti, manifesti, fuoriuscite, diffusione, malintesi, politica, in una ridda di elementi ricercati ed analizzati da molti studiosi nel mondo, momento di valutazione ed indagine storiografica per il modo/modi di accostarsi al movimento, le cause del suo sviluppo successivo, l’inevitabile impasse insito fra le pieghe cronologiche della proposta, dell’oggetto-soggetto stesso scelto da Marinetti prima e da tutte le altre personalità del e nel gruppo poi: il futuro, anzi il Futurismo. Tema dominante del movimento è fin dall’inizio l’idolo-simbolo della macchina, elemento che a sua volta incarna tutti i fondamentali ideali dell’arte e della vita futurista: la modernità, il progresso tecnologico e appunto la velocità, il dinamismo. Abbinando alla cognizione del “viaggio in automobile” la teoria dell’intuizionismo del filosofo Henri Bergson (1859-1941), di cui Giovanni Papini (1881-1956) è uno dei primi a riunire, in Italia, nel 1909, una scelta di testi, nel volume La Filosofia dell’intuizione.

Secondo Bergson la realtà è un continuo fluire di elementi spazio-temporali, i futuristi arrivano ad intuire, ad operare e creare una nuova realtà data dalle sensazioni della velocità, del dinamismo e della simultaneità prodotte dalla tecnologia in fieri e dal moderno ed industriale ambiente urbano.
Dal punto di vista pittorico è in particolare Giacomo Balla (1871-1958) a concentrarsi in maniera più programmatica sul nuovo mezzo, visto come “emettitore di velocità”, dinamismo, astrattismo, si vedano ad esempio le Compenetrazioni iridescenti dell’inizio anni Dieci ed anche la serie dedicata alla Velocità astratta composta intorno al 1913 e che seguono in maniera ravvicinata i primi esperimenti di “dinamizzazione” dell’immagine datati 1912 – Ritmi del violinista, Dinamismo di un cane al guinzaglio, Ragazza che corre sul balcone – e delle opere con titoli di tipo addizionale – Velocità d’automobile + luce + rumore, Ritmo + rumore + velocità d’automobile, Automobile + velocità + luce, tutte ancora del 1913.
In questo periodo Balla, anzi FuturBalla come firmerà le opere futuriste, reagisce all’accademismo sperimentando, in un progresso tecnico dal e oltre il suo primo periodo divisionista e proprio grazie agli stimoli ottenuti mediante il nuovo mezzo meccanico, anzi spesso guardando al funzionamento di questo stesso, lavorando appunto sulla sensazione ma anche sulla percezione, altro tema bergsoniano, ottica della velocità riprodotta poi nelle opere attraverso volute, immagine stessa del dinamismo, più linee e forme dedotte dalla scomposizione cubista, monocromia luministica. In questo modo l’artista riesce a visualizzare e materializzare l’energia direzionale del moto annullando però la forma dell’oggetto stesso.
Medesimo scopo teorico e creativo insieme, avrà la divulgazione e sperimentazione dell'”Aeropittura” – ma anche scultura e poesia – la “nuova invenzione” futurista, cronologicamente fra la seconda metà degli anni Venti fino all’inizio dei Quaranta circa ma anche oltre, come evidenziano ad esempio le opere di Benedetta (1897-1977), Gerardo Dottori 1884-1977), Tato (1896-1974) ecc. L’aeropittura vide la propria “legalizzazione” pubblica con ovviamente la redazione del manifesto Aeropittura futurista, datato 1929, firmato dall’instancabile Marinetti insieme a Mino Somenzi e proponente un ennesimo rivoluzionario modello di poetica nella revenge avanguardistica post-bellica del gruppo.

Si tratta in breve del ritorno possente degli artisti del movimento ancora verso il dinamismo, teorico e pratico, abbinato alla ricorrente iconografia della macchina-aereo, già comunque anche questo in qualche modo suggerito nel periodo pre-bellico del futurismo. Si rimanda in particolare a L’Aeroplano del Papa di Marinetti del 1914 – romanzo profetico in versi liberi – ed ancora prima al Manifesto tecnico della letteratura futurista del 1912, nel quale si legge “Guardando gli oggetti da un nuovo punto di vista, non più di faccia o da dietro, ma a picco, cioè di scorcio, io ho potuto spezzare le vecchie pastoie logiche e i fili a piombo della comprensione antica”.

Il volo nella pittura come le neo-nate basi di una nuova era futurista, come dimostrano le Biennali di Venezia del 1938 e del ’42, alle quali fra gli altri partecipò la giovane Barbara, prima trasvolatrice-pittrice-donna futurista, tre primati in uno, personaggio impertinente, inesperto, illuso, la quale, nella sua autobiografia ricorda: “non mi sfiorò neppure l’idea che Marinetti, in quel momento, stava ‘catturando’ un caso nuovo nel futurismo, un caso che poteva far notizia: un’aviatrice, diceva lui; l’unica donna aviatrice del movimento futurista. Non capii che solo quello gli importava, e non come sapevo dipingere” (Barbara-Olga Biglieri Scurto).

Nella continua ricerca di altri importanti “mezzi espressivi” perciò, perché in fondo è questa l’indicazione verso cui i programmi e le opere dei futuristi tendono: la deformazione luministica, come già evidenziato di chiara matrice post-divisionista; la dinamicità dell’immagine, sperimentata negli stessi anni anche a livello fotografico o per meglio dire crono-fotografico, nel 1911, da Anton Giulio Bragaglia (1890-1960); il sintetismo, i quali non vanno comunque disgiunti dalla contemporanea e suddetta “politica della velocità”. Le prime teorizzazioni, anche se ancora a livello embrionale, sono riscontrabili nel Manifesto dei Pittori Futuristi (1910) e poi nel Manifesto Tecnico della Pittura Futurista dell’11 aprile dello stesso anno, ad opera e firma di Balla, Boccioni, Carrà, Russolo, Severini.
In particolare Boccioni, del quale, dal punto di vista della teoria, ricordiamo anche la personale redazione del Manifesto Tecnico della Scultura Futurista (1912) ed il volume del 1914 Pittura e Scultura Futurista – Dinamismo Plastico.

L’artista in questo modo concentra la propria ricerca artistica di questi anni proprio sulla complementarietà del dinamismo e della simultaneità, fermati ancora sul concetto di “durata” bergsoniano proiettato sul versante vitalistico. In questo modo supera, fin da subito, la visione simultaneista di Balla, legata alla successione spazio-temporale dell’evento, affrontando invece la dinamicità insita anche nell’oggetto immobile, riprendendo così intuizioni messe in opera già da Medardo Rosso seppur unendole alla frammentazione e “compenetrazione” dei piani dei cubisti. Il dinamismo oggettivo universale riscontrabile nella soggettiva immobilità presunta dell’oggetto, porteranno Boccioni ad un annullamento dell’elemento ottico mediante la sovrapposizione dell’elemento “sensazione” e della memoria di questa stessa. Citando le opere dell’artista potremmo dire: dagli Stati d’animo (1911) alla Materia e consimili del 1912, passando per le nature morte scultoree, Tavola + bottiglia + caseggiato, Teste + casa + luce e l’Antigrazioso sempre del ’12.

La simultaneità – Fusione di una testa e di una finestra (1911-12), Sintesi del dinamismo umano (1912) – diviene così l’elemento dominante nella “sintesi” fra memoria e vista, fra ricordo e percezione mediante il tempo, inteso nella sua “durata” appunto fra interno ed esterno, perciò fra occhio e mente, come scriveva Bergson, il quale a sua volta associava la dualità risultante al concetto di élan vitale. Tramite questo, i soggetti “divenire” e “creazione” divengono pure nuances, prendendo spunto dalla esemplificazione cromatica boccioniana, dello stesso tono. Dal punto di vista grafico ciò avviene tramite le “linee-forza”, come nella serie dei Dinamismi e delle Forme uniche di continuità nello spazio del 1913, dove l’energia della figura risulta un tutt’uno con quella dello spazio e della psiche, nella pressione del corpo e delle parti di questo, nell'”incedere verso…”, ricordando che “(…) La cosa che si crea non è che il ponte tra l’infinito plastico esteriore e l’infinito plastico interiore, quindi gli oggetti non finiscono mai e si intersecano con infinite combinazioni di simpatia e urti di avversione” (U. Boccioni).

Altre due importanti menti del primo nucleo futurista sono Carlo Carrà (1881-1966) e Gino Severini (1883-1966). Per quello che riguarda il primo possiamo dire che per lo più il suo periodo futurista deve essere letto come puro momento formativo di un’ambizione e ricerca artistica sempre in netta evoluzione e cambiamento, dove all’iniziale partenza di tipo divisionista, con suggestioni simboliste, ancora in qualche modo presenti anche nel primo periodo futurista di Carrà, si confronti ad esempio le opere Nuotatrici (1910) e Funerale dell’anarchico Galli del 1911.

Carrà del resto si avvicina al futurismo con un occhio, per così dire, più “francesizzante”, coniugando la lezione pittorica e volumetrica di Cezanne – Ritratto di Marinetti (1910-11), il dinamismo e la scomposizione cubista, a proposito della quale Ardengo Soffici, nel ’14 pubblica, nel voler indicare una via di lettura teorico-tecnica del gruppo italiano, ormai già pienamente in atto, Cubismo e Futurismo, edizione aggiornata del suo Cubismo e oltre (1913), già in embrione nell’articolo del 24 agosto 1911 Braque e Picasso.

Lungo questa scia, di Carrà, ricordiamo: Ciò che mi ha detto il tram (1910-11), Sobbalzi di carrozzella (1911) e La Galleria di Milano (1912), fino all’uso dei papiers colleés nel ’14 – Inseguimento, Manifestazione interventista, dipinti nati durante gli intensi rapporti sviluppatisi con Apollinaire e Picasso in particolare. Gino Severini rappresenta il polo dell’internazionalismo futurista, rafforzato dalla scelta di vivere a Parigi e, da lì, la frequentazione dell’entourage avanguardista dell’inizio secolo, dai contatti con l’ambiente dell’Oeuvre a Raoul Dufy, ancora Apollinaire e Picasso. In questo senso la sua pittura è molto più vicina alla realtà francese ed in particolare alla percezione pointilliste del colore di Seurat e Signac, subordinata però alla creazione della forma, ed è proprio mediante questa che si distacca dalla cultura cubista – La danseuse obsédante (1911) -, raggiungendo una personale funzione costruttiva del colore, pur se in maniera meno spasmodica e dinamica di quella ad esempio di Boccioni, così come è individuabile nelle opere Nord-Sud del 1912 o Autoritratto (1912-’13), applicato alla vita mondana del borghese moderno – Ballerina in blu (1912), Dinamismo di una danzatrice (1912), Festa a Montmartre (1913) -, con l’uso del collage, oltre all’inserimento di parole, frasi, scritte urbane ecc., solo a voler di nuovo evidenziare quel carattere distintivo della vita moderna appunto, vivo nelle opere di tutti i futuristi e che già avevano trascinato l’italica, ma non solo, tradizione tipografica nel vortice dell’invenzione, basti pensare, unicamente per fare un esempio, alla rivista inglese Blast (Londra, 1914-’15) ispirata proprio alla spregiudicatezza tipografica futurista. Danse du Pan-Pan au Monico (1911-’12), di Severini, diventerà comunque un nuovo, vero manifesto di operatività futurista, “l’oeuvre la plus importante qu’ait peint un pinceau futuriste” come la definisce Apollinaire, ponte fra uso del colore neo-impressionista, dinamicità futurista, scomposizione cubica e vita moderna. Così come continuavano a teorizzare i futuristi, togliendo ovviamente il tracciato cubista, con i Manifesti prima e dopo tramite la diffusione dell’organo di stampa del gruppo futurista, la rivista più diffusa fra gli operai del centro-nord Italia, Lacerba (Roma 1913-’15) fondata da Giovanni Papini ed Ardengo Soffici a Firenze, dopo il distacco dei due da La Voce, successivamente sostituita da L’Italia futurista (1916-’18) diretta prima da Bruno Corra (1892-1976) e poi da Arnaldo Ginna (1890-1982) ed Emilio Settimelli (1891-1954). Lacerba perciò, attiva-attivista fino alla prima guerra mondiale, diventerà teoricamente e per divulgazione, lo spartiacque del movimento stesso.


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