Riscaldamento

Riscaldamento

Le mie lezioni saranno delle favole imbastite intorno a certi fatti che sono vagamente storici […] ho il sospetto che anche i veri “esperti” raccontino favole […] più lunghe e molto più complicate […] forse vorreste sentire la VERITÀ […] allora forse dovreste trovarvi altrove: ma giuro sulla mia vita che non saprei dirvi dove esattamente.
Paul Feyerabend, Ambiguità e armonia, 1996

Pensiamo mai: ecco un libro? No, già da sempre sappiamo che è un libro sull’arte. Non lo avremmo nemmeno visto se non fosse sullo scaffale o nella casa o nell’aula appropriati, oppure nella borsa, nella macchina, negli appunti di persone appropriate – in un senso o nell’altro – al suo probabile contenuto. Presumiamolo almeno.

Dunque, ecco un libro di storia della fotografia. O di storia dell’arte. No, forse un libro di teoria (dell’arte e della fotografia). Nel titolo c’è perfino scritto: “pensiero”. E col pensiero si fa teoria. O forse non solo. Lo apriamo per verificare gli indizi: le immagini, l’indice, letture a campione: dal fondo verso l’inizio e poi dall’inizio verso il fondo. Sfogliandolo a ventaglio salta agli occhi un primo dato: le immagini non sono in ordine cronologico come in un manuale, e nemmeno tutte stipate nel sedicesimo patinato, come nella saggistica. Già ma allora cosa è questo libro?

Casomai fosse un libro di critica? Veramente nell’indice ci sono anche argomenti storici e, detto fra noi, il linguaggio non sembra del tutto illeggibile e autoreferenziale. In realtà è un libro di critica solo nella misura in cui è composto di saggi. Testi brevi, schegge ad assetto variabile e ad incastro e sovrapposizione parziali. Una corsa sul posto. Non sarà mica un libro di quelli astrusi sul “metodo”? Eccolo lì, già lo vedo: pedante e finanche saccente. A primo acchito non pare, per una scelta di fluidità non ci sono nemmeno le note. Ma insomma: come parlano queste pagine? A chi? E di che cosa? Mi faccio anticipare una risposta traendo una frase da Devant l’image, di Georges Didi-Huberman: “sì, è necessario stupirsi. Questo libro [il suo, n.d.a.] desidererebbe solo interrogare quella tonalità di certezza che regna nella bella disciplina della storia dell’arte” (1990: 10).

Come procede, quindi, questo libro? Con una scrittura a chiazze: l’originale macchiato da pozzanghere di banale, pensieri lucidi e limpidi ora qui ora lì velati dall’opacità di un concetto ancora ruvido, in attesa di distendersi al massimo. La comprensione autocompresa qui e là ravvivata dal baco dell’incomprensione inoggettivata. La cosa fortuita che si affianca e perfino si sostituisce alla cosa in sé, per dirla – di nuovo – col Didi-Huberman di Phasmes (1998: 8). (…)

Nello scrivere, un certo equilibrismo di stile si è reso inevitabile per rendere disponibile il testo su diversi livelli di ingresso, offrendolo a differenti sguardi: alcuni potenzialmente smaliziati, altri potenzialmente attoniti. Ma un libro non può mica negoziare il proprio stile. E chi lo fa? Questo è il mio stile. Dunque se il tono del testo oscilla non è il caso di suggerirmi un regime alimentare più moderato, ma è meglio seguire la logica diseguale, non isòtropa, della scrittura come se quest’ultima fosse una lente bifocale: di quelle che, guardando in alto, funzionano da occhiale da riposo mentre, guardando in basso, correggono forti presbiopie. In questo modo quindi tento di far rimbalzare alcune vibrazioni specialistiche dentro e più in là della comunità degli esperti, senza troppo impoverire il segnale. Didattico: sì grazie; didascalico: grazie no. Il testo si vuole insomma come una specie di “gesticolazione fatta in pubblico per coloro che vogliano eventualmente fare la stessa cosa o […] scivolare in questo tipo di esperienza”, secondo le parole di Foucault (Trombadori 1999: 39). Un’azione dimostrativa non necessariamente replicabile, radicata nelle mie pratiche di lettura e di azione. Approssimata sempre per difetto rispetto ad ideali preformati di adeguatezza: filologica, argomentativa, stilistica, comunicativa etc.

Vivere come viviamo, pensare come pensiamo è una conseguenza dell’inesistenza di fatto di una Verità finale, fideistica, una verità che annulli le altre marcandole come opinioni devianti o erronee. Noi tutti siamo il frutto del conflitto fra tutte le diverse Verità prodottesi in luoghi e tempi spesso remotissimi e invece, il più delle volte, vicini e solo parzialmente sovrapponibili. Si è infatti spesso parlato di “contemporaneità del non-contemporaneo” (Kracauer citato da Jauss 1967: 93, e si veda anche il concetto di età sistematica in Kubler 1962: 69-72). Confrontare le verità è insomma un’operazione che produce irriducibili resti, come quadrare il cerchio o moltiplicare mele per carote. Citerò, non senza un certo orgoglio erudito, dall’anonimo – eppure nietzschiano – redattore di Topolino che, nello spiegare ai ragazzini all’inizio dell’anno scolastico quali tipologie di compagni si troveranno accanto, definiva il “tipo ideale” del sapientone come colui che “sa tutto di tutto, ma appunto questo è tutto ciò che sa”. Al posto del possesso trionfale del sapere o meglio come animazione di esso, è invece preferibile quel lumino che rende meglio visibili le connessioni, anche quelle solitamente nascoste, del tutto col tutto. La rete che noi tiriamo per prendere il pesce del sapere: sempre lembo di una rete più ampia. Per inciso il titolo inizialmente voleva essere “Vedere connessioni”, in riferimento alla pratica wittgensteiniana di rendere trasparente la complessità concettuale dell’azione del vedere. Ma, avendo già sulle spalle un titolo fonicamente simile, ho optato per una finta climax ascendente. Vi riconosciamo infatti la tipica induzione immanentista che parte dalle cose reali (fotografia) individuandovi i concetti astratti (arte) grazie ai quali riconosce in sé la presenza di facoltà generali (pensiero). In realtà gli apici inversi girano la direzione di marcia in senso controintuitivo: dapprima impattando il pensiero (sotto forma di giochi linguistici, di pratiche), senza cui non si dispone di alcuna concezione d’arte e solo da lì toccando la fotografia come una sua latitudine ambigua. Ambiguità non risolta, ma solo resa esplicita. Questa non-linearità che esclude che la fotografia sia in sé una cosa e una cosa sola (che da dentro la fotografia si possa dire “questa è arte”), è revocata dal fatto che spesso riconosciamo che “questa è una fotografia” solo quando siamo già nell’ambito – fluttuante ma granitico – dell’arte. (…)

In ciò voglio mantenere il contatto con un’idea: quella delle fototensioni. Non è più che un neologismo non troppo eufonico, ma che porta in sé il germe di un ripensamento costante. Questo fotografia < arte < pensiero non può che essere un’estensione criticamente e diacronicamente meno angusta di un nodo problematico coerente e appunto abbozzato nel libro precedente. Un’osservazione delle tensioni che riemergono ciclicamente ad animare, scuotere, riassestare e rivitalizzare quella speciale ma multiforme tonalità del visualizzare che chiamiamo fotografia. L’indimenticato etnoglottologo Giorgio Raimondo Cardona un giorno a lezione ammonì che non si è mai detta una cosa in eterno, ma la si può scrivere per l’eternità. E questo non suonava come una promessa, ma come una minaccia. Come che sia: i libri hanno comunque il destino che si meritano.

Questo in particolare si snoda in vari strati sovrapponibili per piccole parti. Qui riassumo sinteticamente cosa vi è trattato. Nel primo capitolo ci si avventura nei meccanismi che sovrintendono alla visualizzazione. Non si vuole dire una parola definitiva o definitoria: si tenta invece di fornire delle coordinate e degli esempi. Di cosa? Di come lo “sguardo” non sia assolutamente la stessa cosa della vista, in senso ottico, ma invece sia quell’attività originariamente concettuale che rende culturalmente pertinente ogni cosa, anche la più inavvertita. Si propone una veloce panoramica su alcune posizioni teoriche dei recenti visual studies americani, per aprire il ventaglio delle risposte – si fa infatti riferimento a contributi non tradotti in italiano – più che per abbracciare questo o quel credo, daccapo.

Col secondo capitolo inizia la serie di analisi e percorsi attorno e attraverso alcune opere ed autori. Voglio dire: mi sono liberato, con questi saggi, di alcune opere che a lungo hanno ossessionato le mie cellule grigiastre. Immagini che sono rimaste per troppo tempo ad aleggiare nei riferimenti dei miei discorsi, nelle parole delle mie lezioni, e di cui dovevo finalmente occuparmi dando loro il tempo dovuto. Imbastendo attorno ad esse la mia propria “farce au bord du trop” (Derrida 1978: 21). Sunrays and Shadows – Paula, Berlin (1989) di Alfred Stieglitz e il Ritratto di Zola (1867) di Edouard Manet sono messe in rete per notarne non tanto le connessioni reciproche, quanto piuttosto le interconnessioni incrociate coi campi culturali della fotografia, della memoria, del museo. Trattare la fotografia da oggetto storico in quanto opera d’arte – da comprimaria e non certo da facente-funzioni della pittura – mi sembra un buon modo per saggiare differentemente un terreno che di solito forza la foto nel ghetto dell’autonomia o nel baraccone postmodaiolo del tutto-fa-brodo. Sia chiaro che tutt’oggi è da sottoscrivere in pieno quanto scriveva Edward Steichen nel 1903 sul primo numero di Camera Work (1997: 107) mostrando come le variabili del mezzo fotografico siano non solo in grado, ma costrette a produrre alterazioni infinite rispetto ai dati di realtà: “fin dall’inizio, quando l’operatore regola e controlla il suo tempo d’esposizione, quando in camera oscura il liquido di sviluppo è miscelato al fine di ottenere dettaglio, ampiezza tonale, uniformità o contrasto, si ricorre a una finzione. Di fatto ogni fotografia è una finzione dall’inizio alla fine: essendo praticamente impossibile una fotografia puramente impersonale e non manipolata.”

Diverso è il caso del terzo saggio col quale si guarda in filigrana un’opera problematicamente definibile “d’arte” qual’è la copertina del CD All that you can’t leave behind (2000) degli U2. Nella mutevole grana dell’immagine si rivelano gli ingranaggi sociali e le diverse pratiche alle quali la fotografia risponde in tutte le sue mutazioni. L’imprendibilità di questa immagine infatti è dovuta al fatto che la sua forma finale e dunque “reale” non collima con l’originale materiale; un po’ come le tavole originali dei fumetti non dicono nulla, il bianco dei balloon vuoti le rende mute: non sono fumetti, ma la base, l’artwork del fumetto che vive anche delle ricchezze del testo, della sceneggiatura, dell’edizione. E il meno che si può dire è che il “prodotto finale” sarà anch’esso un’opera. Il saggio si avventura anche oltre l’oggetto particolare per investigare un po’ sulla grana del visibile e sulla visualizzazione delle trasparenze, concettuali o meno, arrivando a scomodare artisti come Roy Lichtenstein, Marcel Duchamp e Ugo Mulas.

Col quarto saggio sul After Gerhard Richter (2000) del fotografo brasiliano Vik Muniz si riaprono i canali fra la pratica fotografica e le diverse pratiche materiali: il dipingere, l’assemblare etc., notando il vertiginoso gioco di specchi fra la fotografia che parla di pittura in Muniz e la pittura che parla di fotografia in Richter. Credo che il lavorio critico e investigativo renda evidente come lo sguardo intrecci le proprie intenzioni con quelle dell’opera. Le connessioni che si vedono nell’osservare in trasparenza l’opera d’arte non sono necessarie ed immutabili. La ricerca è autobiografia nella misura in cui le connessioni trovate sono un po’ come una retinografia dello sguardo.

Il quinto contributo richiede qualche spiegazione per il tono che ha e per quel che è. Note problematiche di storia dell’arte è un saggio nato nel 1997 e distribuito seminarialmente agli studenti di Storia dell’arte contemporanea dell’Università di Siena, dove – con Enrico Crispolti – ho insegnato Storia e metodologia della critica d’arte dal 1996, trasferendo questo insegnamento alla Scuola di Specializzazione della stessa università nel 1999 e fino al 2000. Il pubblico e il ruolo di questo testo ne spiegano il tono. Anche se pesantemente ritoccato, esso infatti non ha perso un certo sapore acerbo. Si agitano in questo saggio tutte le suggestioni dell’avido lettore del Kubler della Forma del tempo (1962) e del Jauss di Perché la storia della letteratura (1967), del Belting di La fine della storia dell’arte (1983) e del Rosenberg di The Anxious Object (1964), di Bianchi Bandinelli, Bürger e Castelnuovo, di Koyrè e Rossi, di Foucault, Kuhn e Feyerabend; la sete di teoria della storiografia, di epistemologia contemporanea e di altri testi interstiziali. Autori che si intrecciano tanto con Jack Goody quanto con Nelson Goodman, John Berger e perfino il già evocato Didi-Huberman.

Tutta questa agitazione pluricentrica era volta a scrollarmi di dosso un senso quasi di ineluttabilità del repertorio, sentimento che è fisiologico in chi si laurea a Roma e si specializza a Siena con laureati di Firenze. Volevo riportare al livello “legittimo”, come direbbe Bourdieu, (là da dove non viene più la domanda ma sempre più spesso la risposta) l’interrogazione: perché e per chi questo-o-quello sono arte oggi? Era una lotta per recuperare il primato metodologico del contemporaneo, dove da sempre alligna questa interrogazione; per sottolineare l’apertura di compasso obbligatoria per lo storico e il critico di fatti vicini e dunque culturalmente sovradeterminati. Un atto folle e perfino autopunitivo, una ferita per ridisegnare – sull’acqua, lo so – le gerarchie dei valori. Nello scrivere questo libro mi sono detto: chissà che questo berretto a sonagli tutto punteggiato di campanelli d’allarme metodologico, ieri d’uso privato e al più seminariale, non possa essere ancora di qualche interesse?

Ho lasciato a mo’ di appendice una riflessione – in senso catottrico – che rimbalza lo sguardo dall’oggi di nuovo verso il repertorio, e da lì ancora a risalire. Peter Exline – Spokane, Washington (1970) di Lee Friedlander è una fotografia che fa della paradossalità la propria arma. L’autore è silenzioso e in qualche modo “classico”, lo sguardo schietto e diretto, l’impianto canonico per un americano: è la tipica immagine understated e ingannatrice che richiede uno sguardo armato. Un dispositivo ottico-mentale che voglia leggere ciò che uno sguardo non meno sovraccarico ha visualizzato. Questa sezione distaccata del libro quindi si riaggancia al saggio su Stieglitz come sua ripresa e variazione, sua lente aggiuntiva, suo gioco peninsulare.

Infine, come un passeggero che viaggi appeso alla maniglia di un treno, la seconda appendice fissa alcuni punti su un tema che, più ci pensavo più ero certo di dover trattare qui ed ora: la rifondazione concettuale dell’omologia fra il concetto di fotografia di matrice indicale peirciana, e il readymade, o peggio, tutto Dada. Sono convinto di aver rimesso a punto, pur se in tempi brevi, e chiarito quantomeno la mia visione sul tema.

Apparati: sì c’è posto anche per loro. Innanzitutto un glossario, ampio ed eterogeneo, dove alcuni termini possono essere verificati, soprattutto dagli sguardi ancora incerti sull’uso che se ne fa fra queste pagine. Segue una webgrafia concepita come una specie di offerta: ho infatti ripulito e verificato i segnalibri (bookmark) del mio browser, con la capricciosa incompletezza del caso che fa appuntare solo alcuni degli infiniti siti controllati radunando un’affollata rimanenza di molte notti insonni. Di seguito poi non può che incontrarsi la bibliografia generale dove andare a decifrare i rimandi interni al testo (con la clausola nome-e-anno). Fine? Quasi: resta solo uno strumento molto utile come l’indice dei nomi: come saprà mai il lettore se si parla dei suoi eroi preferiti senza questa indispensabile sezione (…)

E infine, se devo scegliere un tempo e un luogo per dare definizioni apodittiche, preferisco farlo ora, qui, del tutto gratuitamente: a freddo. Lo faccio riprendendo un’idea che ho già abbozzato (1999: 71): un’ennesima – alas! – definizione della fotografia che, direi, vale per come la interpreto personalmente: cioè come immagine fotografica nel suo intero, nel senso anglosassone, includendovi cioè video, cine, foto e infografia.

L’immagine fotografica, riformulata ora con appena minor rozzezza, equivarrebbe più o meno alla amministrazione di flussi fotonici – quali che ne siano le sorgenti – attraverso dispositivi meccanici e/o organici di modulazione, memorizzazione e presentazione in forma. E, volendo distinguere l’immagine fotografica in quanto statica dalle altre, la definirei come un permanere sulla soglia dell’immagine in movimento, per quanto questo possa essere impercettibile.

Ma andiamo avanti.


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