Questioni di punto di vista (08/2011)

L’avranno vista tutti, quest’immagine, ma mi pare valga la pena di affrontarla un attimo in più. Il cosiddetto “Riot Kiss” (bacio tra gli scontri) opera di Richard Lam, è stato pubblicato il 16 giugno del 2011 sul Vancouver Sun a testimonianza di quanto accaduto nella città canadese messa a ferro e fuoco dai tifosi locali dopo aver perso la finale della Stanley Cup di hockey su ghiaccio contro la squadra di Boston.

Di qui a 100 anni questa foto potrebbe ancora reggere al peso degli anni mostrandoci intatto il momento in cui un ragazzo e una ragazza imprevedibilmente si distendono e si baciano, mentre tutt’attorno a loro impazzano la follia, la violenza, le fiamme. Non è il migliore spot possibile per la forza dell’ammore? Non è l’emblema stesso della fotografia che vale più di mille parole? Non è lo stesso del marinaio che bacia l’infermiera di Alfred Eisenstaedt nel giorno in cui termina la 2° Guerra Mondiale? Non è così? No, non lo è: ma lo diventa. O lo diventerebbe, se lasciassimo la foto tranquilla, da sola; se non la ricoprissimo di indiscrezioni, intrufolandoci sempre e per forza dietro le quinte, quando non sempre quel guardare-oltre ci porta davvero al di là dell’immagine.

Innanzitutto: della stessa foto si può dare una lettura documentaria e una lettura emblematica. Se si dispone di informazioni collaterali, sia di tipo iconico sia di altra natura (immagini o, invece, resoconti, interviste, filmati etc.) si può tentare di piazzare quest’immagine all’interno di una catena di eventi, di cause e concause – fotografiche, oltre che fattuali – riducendo il numero di illazioni necessarie a spiegare a cosa essa si riferisca. Se invece non si dispone di informazioni (come avviene il più delle volte) la foto continua a comunicare, ma a un livello emblematico: dove ogni singolo elemento diviene categoria generale e astratta. Mi spiego: per una lettura documentaria i due sono: “Scott Johns e Alex Thomas”; per una emblematica sono: un uomo e una donna. Capito?
Proseguo: il contesto passa dall’effettivo: “la strada di Vancouver in preda agli scontri dove – travolti da tifosi e poliziotti – i due cadono a terra”, a un emblematico: questo mondo impazzito e selvaggio. L’azione, letta risalendo i fatti, corrisponde a: “Scott, caduto subito dopo Alex, tenta di ridare coraggio alla fidanzata, in lacrime per il panico e per l’urto con la folla”; quando, letta in senso emblematico, suona: i due si abbandonano al sentimento qualunque cosa avvenga attorno a loro, o – come ha (incredibilmente) commentato il padre di Scott su Facebook: questo vuol dire fare l’amore non la guerra!…

Il motivo che mi spinge a credere che questa foto non conserverà il suo valore emblematico è l’accanimento mediatico, o meglio: l’assortimento mediatico e l’accesso alle sue fonti. Bastava pagare ed ecco spuntare il girato di varie telecamere di sicurezza ad offrirci l’evento immortalato da Richard Lam per Getty Images, visto da altri punti di vista sia spaziali che temporali. Ora sappiamo che un fiume di gente ha travolto i due, che la polizia ha tentato di rialzarli, che lei era sotto shock, che lui ha provato a rincuorarla, che gli si sono avvicinate varie persone. Ma sappiamo anche che Lam ha scattato varie immagini e che solo su una di queste si può vedere il poliziotto, emblema degli scontri, mentre impalla, copre e rimuove dalla memoria collettiva la figura di una donna che nel frattempo si avvicinava per porgere aiuto. Non si può preferire a priori il documento rispetto all’emblema, o viceversa: occorre scegliere in base all’uso.

La forza di certe immagini come quella di Eisenstaedt è che – tolta una manciata di negativi alternativi – non si è saputo granché su chi fossero quel marinaio e quell’infermiera (morta di recente) e il perché o il percome i due si fossero trovati a baciarsi. Scott e Alex, invece, praticamente il giorno dopo erano ospiti dell’emittente canadese CBC riraccontando la loro vicenda nei minimi, pettegoli, costosi, inutili particolari; e affogando, così, nel chiacchiericcio la bella fotografia di Lam. Alla prossima.

© Augusto Pieroni (da FotoCult #79, Agosto 2011)


Richard Lam, Riot Kiss, 2011
Controcampo (da videoripresa)
Alfred Eisenstaedt, V-J Day in Times Square, 1945

La tenacia della memoria (09/2011)

Gli eventi vissuti “in diretta” – dal vivo o in tv, su un computer o altri media – restano scolpiti nella mente con una vividezza maggiore di quelli cui abbiamo assistito a distanza di tempo dal loro effettivo accadere. Ce lo confermano gli studiosi del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Winnipeg (Canada) in un articolo pubblicato sulla rivista Memory e riportato dal Corriere della Sera.it dei primi di Luglio. Sono le cosiddette “memorie flash” quelle che si imprimono in modo duraturo nel nostro repertorio mnemonico. Uno si chiederà: ma che differenza c’è tra l’aver visto un evento in diretta o in differita (consapevolmente)? E la risposta è: nei due casi cambia drasticamente il numero e la variabilità dei particolari che la nostra mente immagazzina; l’immagine in diretta resta iperdefinita e stabile; l’altra cambia faccia più facilmente – diciamo così – e non è altrettanto stabile.

Ora basta coi canadesi, e pensiamo a noi: un evento che viviamo in diretta ci “impressiona” maggiormente (la parola stessa porta verso temi fotografici) probabilmente perché sentiamo, in qualche modo, di farne parte. Ci riguarda (per dirla con Barthes), ci siamo dentro; una sua immagine è un frammento della nostra stessa esistenza. Entrare in contatto coi “fatti” di rimbalzo – diciamo – ci rende, invece, più estranei ad essi, meno attenti. Quando i fatti entrano a far parte della nostra esistenza sotto forma di notizia o di informazione perdono, insomma, la loro urgenza, la loro imprevedibilità ed esplosività per acquistare invece una spettacolarità che li rende innocui. Diventano oggetti di attenzione, non cause di attenzione.

Oltre ad aver già parlato [n° 57, settembre 2009] delle “sensazioni apicali” e della capacità che ognuno ha di trasformarsi in macchina fotografica in grado di scattare delle foto incancellabili, nonché del tema della fotografia “in diretta” o “in differita” [n° 53, aprile 2009], per non ripetermi – o forse per fare una sorta di “bretella” con gli altri due lontani articoli – mi chiedo adesso: l’esperienza fotografica del Reale (ad esempio l’esperienza di un fotoreporter) si fissa sotto forma di “memoria flash” o di “fotografia”? Insomma l’evento impressionante impressiona l’uomo con la macchina in mano, o la macchina in mano all’uomo? Ovviamente, e forse, entrambi, ma in che modo l’uno e in che modo l’altra? Siamo d’accordo che le due cose non sono la stessa? Certo, si dirà.

Parto dunque da questo tema per osservare quanto spesso accada invece che una foto, da noi realizzata, ci piaccia e che noi si continui a proporla, senza essere in grado di toglierla dalla nostra selezione finale, solo perché è l’immagine più adeguata che abbiamo della nostra personale e incomunicabile “memoria flash”. Mi spiego: la foto è un modo di dare a vedere, di visualizzare ciò cui stiamo – innegabilmente – assistendo in diretta, benché nascosti dal fragile diaframma della fotocamera. Ma ciò che portiamo via dentro di noi e ciò che portiamo via dentro la macchina, anche se fanno entrambi riferimento alla stessa Realtà di partenza, ne sono due memorizzazioni totalmente differenti; per noi – ma solo per noi che eravamo lì – entrambe hanno la qualità di “memorie flash”. Per chiunque altro (tranne chi era eventualmente al nostro fianco durante gli eventi), invece, la nostra personale “memoria flash” è completamente inafferrabile e illeggibile, mentre la nostra foto sarà forse oggetto di attenzione, probabilmente di interesse, più raramente di ossessione. Ma resterà per sempre una memoria “batch” cioè in differita. Pensiamoci quando stiamo di fronte ai nostri provini: non c’è modo di trasferire ad altri il senso e il sentimento del nostro vissuto, possiamo solo darne segno. Se la foto per noi è la prova dell’evento, per quasi tutti gli altri è l’evento! Alla prossima!

© Augusto Pieroni (da FotoCult #80, Settembre 2011)


 

Il crollo delle Twin Towers, l’11 Settembre 2001
Il crollo delle Twin Towers, l’11 Settembre 2001
L’esplosione del dirigibile Hindenburg, 1937
L’esplosione del dirigibile Hindenburg, 1937

Saluti dall’11 Settembre (10/2011)

Come ogni 11 settembre ripenso all’attentato alle torri gemelle (che vidi in diretta tv). Lo faccio rimaneggiando riflessioni che pubblicai qualche anno fa a commento di un paio di cartoline regalatemi da una mia cara amica newyorkese molto amante dei souvenir strani e grotteschi. Due cartoline acquistate poco dopo il 9/11 in un souvenir shop a New York come fossero tramonti o panorami della Grande Mela. Una è la tradizionale ripresa satellitare della City di Lower Manhattan, scattata il 10 settembre; l’altra è praticamente la stessa immagine, ma scattata il giorno successivo, dopo l’attentato. O questo è quanto riportano le vistose didascalie. Sul retro, piccole immagini del tipico skyline del World Trade Center; particolari delle torri colpite, fumanti e al momento del primo crollo; e infine due immagini di pompieri perché – va detto – i proventi della vendita delle cartoline venivano devoluti ai soccorritori sopravvissuti.

Le due cartoline rispettano lo schema “prima/dopo” noto fin dalle pubblicità dell’800. Come spesso accade, la visione del dopo è solo vagamente simile al prima. L’angolo di ripresa del 10 settembre è angolato da sud e permette di vedere l’alzato dei palazzi, la ripresa dell’11 invece è praticamente ortogonale e le architetture non sono leggibili. Le ombre del 10 sono corte e ben contrastate, l’11 sono lunghe e coprenti. I colori del 10 sono freddi, l’11 terrei e rossicci. La riquadratura del campo visivo è più stretta l’11 settembre, mentre l’angolatura del territorio è deflessa verso est rispetto al riquadro.

Un discorso a parte meritano le didascalie. Che la prima sia del 10 settembre possiamo anche dubitarne senza danno, perché il prima può ben essere un prima qualunque. Ma ildopo è inquietante. La cartolina dice “September 11, 2001”, ma il testo qui ha un ruolo emblematico anziché descrittivo. Le ombre mostrano un sole di sud-est, il che fa escludere si tratti di una foto pomeridiana. Ma l’ultimo palazzo a crollare – il cosiddetto 7 WTC – cede alle 17:20 in un’area già coperta dall’intensissimo fumo bianco derivante dal crollo di WTC 1 e 2 e destinato a permanere per giorni (come si vede dall’aerofotografia della NASA del 12 settembre). Insomma: la cartolina dell’11 settembre non è una foto di quel giorno. Lo rappresenta, però; al meglio, diremmo: mostrandoci la zona come una ferita aperta, ma sanificata, del tutto priva di ceneri e detriti, ma ancora fumante.

Constato: queste cartoline sono tratte da aerofotografie; l’obiettivo di un satellite governativo registra quel che vede nel proprio campo visivo; una cartolina idealizza le memorie; la didascalia di una cartolina è il puntello necessario di queste memorie; l’unione di queste due cartoline diviene una micro-sequenza, un potente dispositivo narrativo. Non so altro, ma capisco che qui la foto è “cosa prima”, e non è immagine fedele di una cosa reale. Cosa “sia stato” ciò che ha prodotto l’immagine, non lo devo stabilire a priori dalla sua descrizione (che non ha valore d’indizio), né dal suo riconoscimento grosso modo. Non si parla di megapixel contro ISO, è cosa segnica e narratologica. Le due cartoline di Ground Zero non provano ipotesi macchinose; non nascono da tecno-smanettamenti; non nascondono losche manovre nei retroscena del potere o della comunicazione, ma evidenziano solo piccole e meschine strategie umane. Più che a souvenir dell’orrore – inspiegabile e ingiustificabile – siamo di fronte a una mercificazione a fin di bene. Un grottesco impulso a fissare gli highlights del mondo, intravedendo nell’effimera pagina di cronaca la durata della pagina di storia ed elevando la spettacolarizzazione del lutto all’altezza di un monumento nazional-popolare alla memoria. Una memoria che ancora celebriamo con devozione. Alla prossima.

© Augusto Pieroni (da FotoCult #81, Ottobre 2011)